Cultura & Società
Sulle orme del paladino Orlando
Nel numero consistente degli eroi ci sono come tra gli uccelli quelli che viaggiano e quelli stanziali. Il vero grande eroe, però, di solito è anche un viaggiatore. Infatti mal si adattano allo spirto guerrier che entro rugge la papalina, le ciabatte e la poltrona. Perfino la più grande caricatura dell’eroe, Don Chisciotte, si comporta come i suoi grandi modelli: i cavalieri erranti e, a suo modo, viaggia.
Se c’è un eroe da ascrivere tra i viaggiatori, quasi un migratore, quello è certamente Orlando che ha costellato dei segni della sua presenza una quantità incredibile di luoghi dove ha compiuto le sue prodezze, ovvero ha fatto solo una capatina, una visita di passaggio, ma sempre segnando col suo nome un luogo, un capo, un monte, tanto che a cominciare dalla Toscana sono moltissimi i toponimi che si rifanno alla sua persona.
A simile dinamismo, attività, presenzialismo noi non abbiamo da contrapporre che il nostro Garibaldi che, quanto a tracce dei suoi passaggi, rasenta quasi l’ubiquità. Contrariamente a Orlando e ad altri però il nostro Eroe si segnalava per le sue dormite, ossia sono una miriade le lapidi che attestano, dalle città alle minuscole frazioni, le case dove il prode ha dormito, anche due, tre nella stessa notte, cosa che lascia perplessi sulle ragioni di simile inquietudine e al tempo stesso imbarazza nell’associare all’eroismo delle saporose dormite, sia pure in più letti. Anche quando l’arrestarono a Sinalunga era a letto. Bisogna dire che la cosa ha del meraviglioso comunque: se si pensa al numero strabiliante dei luoghi in cui ha fatto le sue russate è già incredibile, ma se si pensa che siamo di fronte a un Eroe dei due Mondi, bisogna strabuzzare gli occhi considerando che quello che ha fatto da noi deve averlo fatto anche in America, raddoppiando pari pari il numero dei suoi dormitori.
La sua storia più famosa è la morte con la sua retroguardia a Roncisvalle per proteggere la ritirata dell’esercito franco nella lotta contro i mori: chiedendo aiuto il suono del suo corno passò i Pirenei, ma inutilmente. Subito dopo viene la storia della pazzia, merito indiscusso dell’Ariosto.
Roncisvalle (777) fu un modesto episodio bellico che, esaltato dalla fama e dalla poesia, assurse a simbolo della lotta dei Franchi contro l’invasione araba e il suo eroe, altrettanto ingigantito dalla gloria, divenne il campione più fulgido della cavalleria per la straordinaria prodezza e vigoria nelle armi, per fermezza d’animo, per fedeltà incrollabile al sovrano e per fede in Dio.
Si capisce come da una figura storica di esile entità (chi sa se mai esistita) possa essere nato un mito di così vaste proporzioni: molte figure hanno subito lo stesso processo leggendario d’ipertrofia sulla spinta del patriottismo, dell’orgoglio nazionale, del bisogno d’una tradizione eroica e guerresca, per esaltazione del valore d’un popolo; tutto quello con cui insomma si forgia un eroe nazionale. Si comprende meno perché questa figura in gran parte immaginaria debba aver costellato col proprio nome una quantità straordinaria di luoghi posti a enormi distanze e anche fuori dell’impero dei Franchi.
Il mitico eroe viaggiatore è Ercole, anch’egli inquieto battezzatore di luoghi lontanissimi fino alla fine del mondo: le colonne d’Ercole.
Con Ulisse, navigatore infaticabile, si passa un po’ più nella storia, in civiltà commerciali che viaggiano per affari e curiosità, bisogno di scoprire, di sapere. Ulisse è il viaggiatore, ma soprattutto il narratore delle sue avventure e delle sue scoperte che celebra nelle corti del Mediterraneo, un po’ come il suo fratello arabo: il mercante Sindibad de Le Mille e una notte.
Lo stesso, quasi un calco, è Enea: anche lui tocca i porti per narrare le sue sventure, ma mentre Ulisse celebra le imprese, la vittoria degli Achei e il proprio valore, il pio Enea è il banditore della fine e dell’eccidio di Troia caduta non per mancanza di prodezza, ma per ben due inganni dei nemici: il furto del Palladio e la frode del cavallo.
Anche discesi leggermente dal piedistallo della mitologia, entrati nel meccanismo dell’economia commerciale, questi due campioni mantengono lo spessore metafisico del modello della loro figura, forma primaria che si trova nel probabilmente più antico eroe di una più antica epopea, quella di Ghilgameš: è lui il primo viaggiatore del poema sumerico che contro l’intollerabile perdita dell’amico Enkidu affronta il viaggio nel mondo dei morti dove il Noè sumero Utnapistim gli dona il Ramo d’Oro dell’eternità che gli viene rapito dal serpente.
Anche Ercole e poi Orfeo compiono in modi diversi lo stesso viaggio rivelando che la meta segreta, ma certa, è proprio l’approdo all’eternità. Cristo stesso, incarnando in modo totale la Redenzione che ogni uomo ricerca e gli eroi in nome di tutti, scende agl’Inferi e sulle sue tracce Dante.
Si possono delineare i connotati arcaici dell’eroe viaggiatore: la prima spinta a tentare l’ignoto, a partire per mondi inesplorati la dà colui che affronta la via impossibile per riportare dal regno della morte il ramo dell’immortalità (Ghilgameš), quindi coloro che per le stesse vie cercano di forzare le porte invalicabili (Orfeo), quindi i visitatori che riportano agli uomini l’immagine e l’esperienza di quel mondo terribile, infine il Cristianesimo che fa emergere dalle voragini del nulla il messaggio della salvezza. Ognuno di questi passaggi, pur perdendo la forza primaria della sfida all’Assoluto, conserva l’impronta della spinta iniziale mantenendo intatta se non altro la forza simbolica del viaggio.
La visita del re in un luogo riaffermava il suo potere, l’affetto dei sudditi nei suoi confronti, veniva solennizzata da doni, concessioni, riconoscimenti e ricordata con cippi, lapidi, edifici. Matilde di Canossa in Toscana ha riempito delle sue visite, delle sue soste ogni zona dove si addita spesso una chiesa da lei fatta costruire perché il popolo la ricordasse.
Dove non arrivava direttamente il sovrano giungeva il suo cortigiano, il dotto, il cavaliere a ricordare il vincolo con il potere. In particolare il campione delle armi, il prestigioso guerriero trascinava le simpatie del popolo e lo faceva sentire sicuro e protetto da uomini prodi e valorosi. Così il cavaliere, come l’eroe, diviene il banditore della gloria d’una figura lontana, eccelsa che tiene intorno a se persone d’eccezionale valore, il rappresentante d’una figura, d’una divinità, d’un sovrano, d’una dama il cui valore si specchia nel proprio. Così l’errante Ercole celebra il padre Giove, Ulisse glorifica il valore degli Achei, Enea tiene alta la bandiera della città perduta, i cavalieri della Tavola Rotonda illustrano i fasti di Re Artù e del Graal, i Paladini quelli di Carlo Magno e Don Chisciotte proclama la bellezza di Dulcinea del Toboso. Qualcosa forse oggi è rimasto negli atleti, soprattutto alle Olimpiadi, dove divengono banditori e testimoni del valore del loro paese i cui governanti si onorano.
Questa seconda funzione è da aggiungere alle forze che compongono la complessa figura del l’eroe cavaliere errante, di cui Orlando fu la massima espressione. In ogni luogo in cui apparve e in quelli dove fu fatto apparire a sua insaputa le leggende, e i segni naturali a queste legati, mostrano quanto fu ampia e capillare l’ideologia del Sacro Romano Impero di cui Carlo fu il fondatore e che durò mille anni.
In questo formarsi del leggendario agisce un fenomeno che si ritrova negli aneddoti come nelle barzellette: l’attrazione della figura maggiore. Sul Piovano Arlotto, ad esempio, figura di spicco della tradizione faceta, si sono condensati fatti, aneddoti, dicerie, storielle capitate a figure minori e proprie di queste che ne sono state spogliate per arricchire il protagonista, secondo il proverbio per il quale piove sempre sul bagnato e si presta sempre a chi ha.
Lo stesso fenomeno si riscontra nei leggendari dei grandi santi, figure storiche, sovrani, papi, giullari come il Fagioli, il Gonnella, Till.
Immaginiamoci quanto materiale sarà piovuto addosso al fulgido campione e modello di cavaliere del Sacro Romano Impero.
A lui appartiene un po’ di tutto: spade ne ha lasciate un po’ dovunque, tranne la sua Durindana (lama fatata che secondo il Boiardo appartenne ai tempi dei tempi all’eroe troiano Ettore) e che cercò di spezzare a Roncisvalle producendo una mezza voragine e ora si trova a Blaye, mentre a Tolosa ha lasciato il famoso corno.
Particolarmente amava i macigni lasciandone numerosissimi spaccati da un colpo della sua arma e si trovano qua e là ben spalmati (come oggi si dice) sul territorio. A Costacciaro in Umbria c’è addirittura lo sperone di Monte Cuccio tagliato in cinque fette, opera di quell’arma terribile. Così in Val Pia in Liguria e così il Sasso d’Orlando tra il monte Caprasio e il Pirchiriano nel territorio di Susa.
Insieme ai sassi il prode collezionava scogli, anche questi rovinandoli con i suoi fendenti, chi sa perché: forse memore del momento in cui impazzì trovando lo scritto di Angelica e Medoro sulla fonte: Tagliò lo scritto e il sasso e sino al cielo / a volo alzar fe’ le minute schegge, canta l’Ariosto. Uno famoso è in Istria nel mare di fronte a Ostera, spaccato a metà. Un altro ancora più famoso, ricordo fin troppo personale, si trova davanti a Piombino, Golfo di Salivoli, frutto d’una sua sosta che dovette fare «da fisiche necessità costretto», che si trova riprodotto in romantiche cartoline con tanto di nome popolare. L’equivalente di tale monumento si trova a Spello: al lato della Porta Urbica a circa un metro da terra si apre un foro nella pietra prodotto dal Paladino ictu mingendi, reperto onorato di lapide e bassorilievo. Si vede che neppure ai tempi eroici prendevano queste cose molto sul serio.
Trovandosi a Spello non è da perdere un’altra impronta meravigliosa di Orlando. Volgendo verso Assisi presso l’antica porta c’è nella muraglia una sporgenza che segna l’altezza delle spalle del cavaliere: tre metri. Due incavi ovoidali segnano l’altezza dei gomiti: 1,63; a circa un metro d’altezza è segnato il ginocchio… Tutto attestato con lapide nella chiesa di S. Ventura.
In Sicilia l’eroe di Roncisvalle vi andò con Olivieri al seguito di Carlo Magno che tornava della Terra Santa. Lo narra nel Phantheon Goffredo da Viterbo. Da questi paladini presero il nome due monti: Monte Oliveri verso la costa settentrionale della Sicilia presso la foce del fiume dello stesso nome; il compagno d’arme dette nome a Capo d’Orlando, un promontorio sulla costa orientale, tra Palermo e Messina, con in cima un castello, d’Orlando anche quello, così come fu detta a Lampedusa una Turri d’Orlannu.
Presso Sutri c’è una grotta dove si dice sia nato e a Montefiore d’Aso (Ascoli Piceno) in una zona di ritrovi d’armi e sepolcreti, indici di una battaglia, Almonte, re di Spagna, chinatosi a bere a una fonte (Fonte d’Aspromonte), fu ucciso da Orlando e la leggenda vuole che sia durato nei secoli un olmo gigantesco al quale aveva legato il cavallo. Ma la rassegna completa sarebbe molto lunga.
Alle terme di Saturnia il prode durante un assedio si caricò sulle spalle l’intera vasca con la sorgente delle acque e, abbattendo la porta chiusa, le portò tutte quante dove oggi sono i Bagni. Poi disse: Acque di Saturnia state qui / a sanare i cristiani dalla rogna. E lì le lasciò.
A Sovana (Sorano) in una zona, detta Pian della Madonna, si vede ancora il grande masso che ha la forma d’un pugno, che è detto La mano d’Orlando. Una notte il cavaliere, messa la spada davanti a sé come croce, si mise a pregare. Appoggiando la mano sopra una roccia tanto fervorosamente pregava che impresse a quel sasso una forza sovrumana: la pietra sotto quella stretta prese la forma della mano, segno dell’assenso del cielo.
Anche per i salti Orlando veniva bene: a piedi e a cavallo e ne fece moltissimi. Si chiama Cappel d’Orlando un rilievo di forma singolare che fa parte del complesso d’alture dell’Abetone (Pistoia). Visto dal Ponte alla Lima, prima d’arrivare a Cutigliano, mostra la forma d’un clipeo, d’un elmo che sarebbe stato lasciato dal paladino, che lo perse spiccando un prodigioso balzo a cavallo. Del destriero rimangono le impronte d’un ginocchio e d’uno zoccolo. Orlando saltò così in Val di Sestaione o al Pian degli Ontani. O come gli avrà fatto?
Almeno un piccolo difetto (a parte la follia che fu passeggera) si potrà ammettere in una figura in gran parte fantastica e ormai appartenente al passato, eppure anche gli insegnanti eruditi tacciono su questo argomento. Male perché forse è stato questo il difettuccio che gli costò l’amore d’Angelica la quale si vede che in fatto di requisiti fisici era donna esigente e poco le importava del resto. Anche Venere era strabica, Omero cieco, Demostene balbettava, Byron era zoppo, Manzoni balbettava eppure tali cose hanno aggiunto più che togliere ai noti personaggi. Del resto è tipico del guerriero, del gigante, del prepotente l’occhio bieco, l’occhio torto.
Non ci sono dubbi, i poeti non sono reticenti, meno l’Ariosto che accenna nel suo poema (XXXIX, 60), quando Orlando riacquista il senno: …con guardo sì men dell’usato bieco. Il Pulci nel Morgante (XXI) fa dire a Chiaristante: Io veggo ben che tu mi guati torto: Non fu mai guercio di malizia netto, / ch’io ti conosco insin dentro l’elmetto.
Il Boiardo parla più chiaro e dice (Orlando innamorato) anche il perché Orlando era sfortunato in amore: E non doveti avere meraviglia / se, più ch’el conte, lei Grifone amava, / però che Orlando aveva folte le ciglia / e l’un degli occhi alquanto stralunava.
Il Berni nel suo rifacimento del poema del Boiardo ricalca fedelmente l’originale. Niccolò Castromarco nel Ricciardetto arriva a far confessare al Conte stesso (XVI, 98): Lasciali fare, che, se ben son nonno, / (rispose il Conte) ed ho le luci strambe, / grazie al Signor, mi trovo bene in gambe. Poi (XVII, 74) è spietato, per bocca di Gano, che dice:
Uno può dire: – Ma a cosa serve sapere queste sciocchezze? Spiegherebbe, oltre ai suoi problemi con Angelica, anche perché a volte colpiva a casaccio con lo spadone macigni, scogli e montagne come se affettasse torte di marzapane.