Arezzo - Cortona - Sansepolcro

Suicidio assistito, diocesi di Arezzo: “No alla cultura dello scarto”

Il vescovo di Arezzo Andrea Migliavacca: "Dobbiamo tornare ad umanizzare la morte e al giusto accompagnamento attraverso la terapia palliativa oltre ad una buona dose di amore"

In merito alla legge sul “suicidio assistito”, approvata ieri dal Consiglio regionale della Toscana, che vanta così un tristissimo primato fra le regioni italiane, i vescovi delle chiese toscane hanno già espresso, con una nota del 28 gennaio scorso, una ferma posizione critica, affermando, fra l’altro, che «La vita umana è un valore assoluto, tutelato anche dalla Costituzione: non c’è un “diritto di morire” ma il diritto di essere curati e il Sistema sanitario esiste per migliorare le condizioni della vita e non per dare la morte».

Ieri, dopo l’approvazione del progetto di legge da parte dell’assemblea regionale, è intervenuto il presidente della conferenza episcopale toscana, cardinale Paolo Augusto Lojudice, secondo il quale «sancire con una legge regionale il diritto alla morte non è un traguardo, ma una sconfitta per tutti».

A queste voci, si aggiunge oggi il seguente intervento della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro con il suo vescovo Andrea Migliavacca e il responsabile diocesano per la pastorale della salute, insieme alla consulta diocesana di pastorale sanitaria, all’associazione Medici cattolici di Arezzo e all’opera Casa Betlemme:

«Da poche ore è stata approvata da parte della Regione Toscana la legge regionale sul suicidio assistito: un fatto che ci ha lasciato sgomenti e addolorati.

La vita è un dono che va difeso e tutelato in tutte le sue condizioni.

Siamo contrari ad alimentare una cultura dello scarto dove si stabilisce chi ha la dignità per vivere.

Lo diciamo a nome di tanti medici, infermieri, operatori sanitari, volontari, membri di associazioni e di tante persone che sono in “prima linea”, che ogni giorno si impegnano a servizio di una vita che merita di essere vissuta pienamente in tutti i suoi momenti, anche quelli più difficili e di sofferenza.

La risposta di una comunità che accoglie non può essere quella di creare la solitudine del suicidio ma di rendersi capace di farsi prossimo in maniera concreta a chi vive il dolore nel corpo e nella mente.

Dobbiamo tornare ad umanizzare la morte e al giusto accompagnamento attraverso la terapia palliativa oltre ad “ad una buona dose di amore”.

A tutti coloro che credono nel valore della vita e della centralità della persona chiediamo di non perdere coraggio: continuino, invece, ad essere testimoni di speranza con rinnovata passione ed entusiasmo.

Nessuno si deve sentire abbandonato, perché solo così e senza altri artifizi, saremo in grado di dare dignità alle persone anche nel loro percorso finale di vita».