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Stragi Capaci e via d’Amelio. Don Rattoballi: «Una ferita ancora aperta e tanto cammino da fare per vincere la mafia»

Ci sono date che segnano un prima e un dopo. Ci sono date che non si possono dimenticare. Ci sono date che consegnano alla storia delle persone che hanno creduto nello Stato, nella giustizia, nell’onestà e sono diventate simboli di un riscatto, che, però, non è mai compiuto del tutto, ma che chiede ogni giorno nuovo impegno perché la mafia è davvero una piovra tentacolare sempre pronta a riemergere, approfittando delle difficoltà in cui si dibatte la società, acuite dalla crisi. Il 23 maggio e il 19 luglio 1992 sono date che nessuno può dimenticare: nella prima avvenne la strage di Capaci, nella quale furono uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio MontinariPaolo Borsellino e cinque agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. A ricordare al Sir quei tragici eventi è don Cesare Rattoballi, parroco dell’Annunciazione del Signore a Palermo, cugino dell’agente Vito Schifani e amico della famiglia Borsellino.

Don Cesare, sono passati venticinque anni dalla morte di Falcone e Borsellino: è una ferita ancora aperta?

«La morte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino è stata una ferita non solo per la Sicilia, ma per tutta l’Italia e non solo. Mi ricordo che quando venne in Italia il responsabile della Cia, che era amico di Falcone, disse che con la sua morte c’era stata una grande perdita a livello internazionale. E, oggi, dopo venticinque anni, è ancora una ferita dolorosissima per tutti».

I due giudici sono diventati un simbolo di riscatto…

«Dopo la morte di Falcone a Palermo si sono organizzate tantissime manifestazioni e sono nate tante realtà, come il Comitato dei lenzuoli. Questo processo di risveglio delle coscienze è stato ancora più forte dopo la strage di via d’Amelio, in cui persero la vita il giudice Borsellino e la sua scorta. Non a caso, ogni anno in occasione dell’anniversario della strage di Capaci arriva una nave o un treno di ragazzi che vengono a ricordare quanto è accaduto ma anche a proporre un discorso di legalità».

Qual è, allora, l’eredita lasciata da Falcone e Borsellino? Quanto è cambiata la società da allora?«Per cambiare una società ci vuole tempo. Quello che è stato fatto finora è bene, però bisogna insistere con una cultura nuova della legalità da diffondere in tutti gli ambienti. Sembrerebbe quasi che la legalità venga portata solo nelle scuole, mentre non abbia raggiunto il livello politico e amministrativo, perché scopriamo che vengono indagate per mazzette persone insospettabili. C’è un problema: se, da un lato, la gente ha recepito questa voglia di cambiamento e di legalità, in ambiti amministrativi o di governo, nella società civile e in certi ambienti produttivi ancora questo cambiamento non è stato accolto del tutto, perché vediamo ancora queste smagliature, questi sfilacciamenti. Ma le ombre non devono farci dimenticare le tante realtà che si sono messe a operare nel sociale e nel civile per il bene comune, come pure ci sono nella politica e nella magistratura persone veramente eccellenti. Eppure, non basta».

Cosa è necessario?

«È un discorso più globale. Ci sarebbero anche delle leggi da fare, bisognerebbe promuovere la famiglia, il lavoro perché lo Stato molto spesso si dimentica delle periferie e delle famiglie che non hanno lavoro. Bisognerebbe tenere impegnati i padri e le madri di famiglia per evitare che siano tentati di imboccare le scorciatoie della delinquenza, che poi aprono le porte alla criminalità di stampo mafioso. Dobbiamo ancora insistere: abbiamo un’importante eredità, abbiamo la testimonianza viva di questi due magistrati, insieme agli uomini di scorta, ma la situazione è molto complessa. Non è tutto o bianco o nero».

Che ricordo ha di suo cugino Vito?

«Era un ragazzo molto sportivo, spensierato, allegro, aveva realizzato il suo sogno: si era sposato e aveva un bimbo di quattro mesi. Vito avrebbe dovuto prendere servizio presso la Polizia di Stato come pilota di elicotteri perché aveva vinto il concorso interno e doveva essere trasferito a Roma ai primi di giugno. Ci è stato strappato con crudele violenza».

Venticinque anni fa, durante i funerali, colpirono moltissimo le parole che pronunciò la moglie di Vito, Rosaria Costa, rivolgendosi ai mafiosi: «Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare…». Quell’appello alla conversione ha sortito qualche effetto?

«Queste parole, che davvero hanno fatto il giro del mondo, hanno segnato la storia.Qualcuno si è pentito in quel tempo e in quel contesto: ricordo che Paolo Borsellino mi disse che alcuni uomini di mafia in carcere lo avevano cercato, dopo aver visto in tv Rosaria, perché non era piaciuta la strage e quindi collaboravano».

Cosa la colpiva in Borsellino?

«La sua genuinità. Metteva le persone a proprio agio. Era una persona molto di cuore, sensibile, con grandi qualità dal punto di vista umano, professionale e cristiano, amava la verità, la sua famiglia e lo Stato italiano. Una volta, prima di confessarsi, mi disse che era arrivato il tritolo per lui, ma non si è tirato indietro».