Opinioni & Commenti
Strage di Viareggio: una sentenza che fa luce sulle responsabilità
In questi giorni mi sono chiesto spesso se la sentenza per la strage di Viareggio sia stata giusta, anche nell’entità della condanna, e se i giudici abbiano subíto il condizionamento dell’opinione pubblica, cioè se possiamo considerarla una «sentenza populista», come hanno sostenuto gli avvocati della parte civile. Ho cercato di mettermi nei panni dei familiari dei trentadue morti, straziati dal dolore che il tempo non ha certo attenuato, i quali hanno diritto di sapere la verità e invocare giuste punizioni.
Ecco, credo che sia stata una sentenza di frontiera, perché dimostra che il sistema di sicurezza ferroviario non ha funzionato e che quindi i manager avrebbero dovuto garantire maggiori e più efficaci controlli. Ma soprattutto – ancor prima di conoscere le motivazioni – la condanna è un pesante richiamo a impegnare il massimo degli sforzi perché catastrofi come quella non si ripetano.
È istruttivo che la sentenza abbia individuato i volti dei responsabili anche ai massimi livelli dell’azienda e non abbia messo alla gogna l’ultimo manutentore della stazione o solo la ditta tedesca che aveva controllato i vagoni senza accorgersi dello stato malconcio in cui si trovavano. Il bene primario, per chi gestisce un servizio pubblico, dovrebbe essere l’interesse e la protezione della comunità, anche se il suo compito non è quello di stringere i bulloni dei binari. Diciamocelo chiaro: temevamo un caso Moby Prince, un’altra storia di morte che a distanza di anni è ancora intrecciata con i silenzi, le troppe reticenze e i misteri.
È andata meglio. Qui c’è una verità e ci sono dei colpevoli sui quali, oltre all’indice del tribunale di Lucca, pende anche il giudizio delle coscienze di noi tutti. La determinazione dei giudici lucchesi ha stabilito che non basta l’impegno a far arrivare i treni in orario e a ridurre i tempi di percorrenza delle grandi tratte dell’alta velocità. Questi non sono gli unici segni del progresso e dell’innovazione. E poi, a cosa servono se non riescono a evitare un’ecatombe purtroppo memorabile, che detiene il triste record di uno dei più gravi disastri ferroviari europei del Dopoguerra? A cosa serve il gigante tecnologico se la sicurezza di lavoratori e cittadini non viene garantita? Forse l’inferno di Viareggio è anche un prezzo pagato all’eccessiva modernizzazione del sistema ferroviario nazionale, che è costato la rinuncia a presidi umani in molte piccole stazioni. Sappiamo che quella sera di sette anni fa, proprio la presenza di un capostazione consentì di fermare manualmente un treno regionale e un intercity, prima che finissero tra le fiamme delle cisterne con il loro carico di passeggeri: evidentemente l’uomo, nonostante tutto, svolge ancora funzioni che il computer non può assolvere. A me sembra una consolazione, ma dovrà essere anche un monito fra i tanti che lascia in eredità questa tragedia. Compresa la superficialità di decenni, che ha portato i nostri insediamenti urbani a convivere con le rotaie – e non soltanto: pensate all’autostrada che a Genova s’infila nella pancia della città – sulle quali transita merce pericolosa. Allora: o non si costruiscono più case a ridosso della ferrovia, o non si fanno transitare i convogli a rischio accanto ai centri abitati.
Si possiamo considerare un Paese maturo, che ha capito, sia pure in ritardo, come la prevenzione sia necessaria e come per decenni la crescita delle nostre città, abbia trascurato alcune norme fondamentali della sicurezza per i cittadini. Dobbiamo fare ancora molto. L’esempio di Viareggio, pagato con la disperazione di trentadue famiglie, può diventare un sacrificio non inutile se le cose cambieranno davvero. Se la strage di via Ponchielli pianterà anche una bandiera di consapevolezza che rivaluti il ruolo dell’uomo sul computer; se la prescrizione che incombe su alcuni reati non fermerà il cammino della giustizia; se la voce «sicurezza» diventerà un capitolo di spesa obbligatorio e non il primo taglio delle spending review
Ecco chi è stato condannato e assolto
Sette anni per Mauro Moretti, ex ad di Rfi e 7 anni e sei mesi per Michele Mario Elia che in quell’incarico a lui subentrò quando passò a Ferrovie dello Stato. Sono queste le condanne inflitte a due dei 33 imputati al processo per la strage di Viareggio che il 29 giugno 2009 costò la vita a 32 persone. Per loro i pm avevano chiesto, rispettivamente, 16 e 15 anni ma i giudici hanno assolto Moretti dai capi di imputazione che lo vedevano a processo anche nella veste di Ad di Fs. Dieci le persone assolte, per non aver commesso il fatto, e 3 su 9 le società che escono «pulite». Le accuse, a vario titolo per gli imputati, erano di disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio e lesioni plurime colposi, violazione delle normative sulla sicurezza.
Sette anni e sei mesi anche a Vincenzo Soprano (ex Ad di Trenitalia), 7 anni per Mario Castaldo (Cargo Fs), sei anni e 6 mesi per Daniele Gobbi Frattini e Paolo Pizzadini di Cima Riparazioni e per Giulio Margarita (Rfi) ed Emilio Maestrini (Trenitalia). Sei anni, infine, per Giovanni Costa (ex Rfi), Giorgio Di Marco (ex Rfi), Salvatore Andronico (Trenitalia), Enzo Marzilli (Rfi), Francesco Favo (Rfi) e Alvaro Fumi (Rfi). Condannate la Gatx Rail Austria, Gatx Rail Germania, Officina Jungenthal e Trenitalia.
Importanti anche le sanzioni stabilite dai giudici: 700 mila euro per Trenitalia e Rfi e 480 mila per le società tedesche. Riconosciute provvisionali, da 30 mila euro a 1 milione, per i familiari e le altre parti civili.