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Strage di Erba, la prossimità rinnegata

di Giuseppe AnzaniTra le cronache dei delitti incredibili, tra le storie degli orrori quotidiani, la strage di Erba continua a pesarci sul cuore, nel passare dei giorni che man mano ci vanno distanziando dallo shock di quella subitanea rivelazione, facendo subentrare allo stordimento il bisogno di capire. C’è un nodo che serra la gola, che non decifra le ragioni di una ferocia pur già tutta narrata e ricostruita nel suo bruto accadimento, che resta in bilico tra i percorsi allucinati della follia e la tremenda ovvietà di un massacro vissuto come epilogo di banali discordie fra vicini di casa.

È questo lo sconcerto che adesso, nel torrente delle confessioni progressive rese dagli assassini, ci percuote e ci spinge a riflessioni più fonde, tuffati come siamo in quel nero orizzonte impregnato di sangue e di fuoco, increduli o disperati, forzati comunque a collocare la tragedia nei confini di una banale quotidianità. Non si sopportavano più, questo è tutto. Troppo distanti gli stili di vita delle due famiglie alloggiate nel medesimo edificio, gli uni fissati su una pulizia e su un ordine maniacale, gli altri inclini a un chiassoso disordine, così pare di capire. Incomprensioni, liti, ostilità, male parole, e anche mani addosso, fino a denunce e ricorsi al giudice di pace. Liti da ringhiera, alterchi da cortile, così solitamente si liquidano queste miserie. E invece ora apprendiamo che hanno scatenato pensieri di morte. Ci prende un brivido, vedendo nell’epilogo infame di Erba i semi della morte che covano dentro i risentimenti della «prossimità» pervasa dai rancori.

La prossimità, ecco la parola cruciale. L’essere «vicini» vuol dire appartenere a un identico insieme, è convivere dentro un contesto condiviso di appartenenza. La prossimità è la realtà che ci accade, sta nella nostra natura, è la realistica necessità della storia degli uomini, sia per chi vi trova rivelazione di fratellanza e spazio di un sogno positivo di alleanza, sia per chi la vive in negativo come limitazione del sè, come confronto e conflitto. Gli altri possono essere la nostra felicità o il nostro inferno, secondo i confini che separano l’inclusione o l’esclusione, l’amore o l’odio, l’essere amici o nemici. Nella storia del diritto, le regole di prossimità, a volte così minuziose, sono il contenuto sostanziale del bisogno di giustizia. Le liti condominiali, i conflitti per i panni stesi, la spazzatura, il parcheggio, il chiasso, le maledette «parti comuni» sono spine irritative che il rispetto e la tolleranza dovrebbero risolvere; ma i rancori che si accumulano generano un odio che segna l’altro come «nemico», vede i suoi gesti come una continua sfida, alimenta mostruose fantasie distruttive.

L’orrendo massacro di Erba, dove mani di donna hanno pugnalato un bambino di due anni perché piangeva, assomiglia a una scena di guerra, in cui la famiglia nemica viene annientata e la casa data alle fiamme. L’assenza di rimorsi completa il quadro. È la prossimità rinnegata, alla stessa maniera che è rinnegata nel mondo delle guerre senza fine, nel vicinato ribollente di odio fra popoli ed etnie.Chi è il mio prossimo? Mai come oggi la parola evangelica fa luce nella nostra disperazione, nei nostri insanguinati deliri; la grande parola del «non uccidere» è solo l’estrema frontiera di un positivo comando di amore, il segreto della vita è quello di «farsi prossimo», la rovina è nel farsi «nemico» perché un cuore che odia è già omicida.