Toscana
Speciale 30° Georgofili, una ferita indelebile
Lui, che abitava in centro, era stato tra i primi ad arrivare in piazza Signoria allarmato dal forte boato che venne udito in gran parte della città ma che in centro fu particolarmente violento. Il caos all’inizio era al massimo, le forze dell’ordine cercavano di comprendere cosa fosse successo, pompieri e volontari della Misericordia e della Pubblica assistenza ceravano di capire dove intervenire. Il luogo dell’esplosione era nella piccola via dei Georgofili, all’angolo con via Lambertesca, ma le fiamme avevano subito interessato alcuni palazzi intorno mentre la forza d’urto aveva avuto conseguenze alla Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, e in altri edifici intorno, perfino al di là dell’Arno. La storica Torre del Pulci, sede dell’ancor più antica Accademia dei Georgofili, che aveva resistito nei secoli, si era sbriciolata uccidendo Caterina, di soli 50 giorni, Nadia di 9 anni, i loro genitori, Fabrizio Necioni, 39 anni, e Angela Fiume di 36, e Dario Capolicchio, uno studente 22enne che abitava in un appartamento davanti alla torre. 48 furono i feriti e incalcolabili i danni al patrimonio storico-artistico.
Al mio arrivo ancora le fiamme si vedevano da lontano, c’era un forte odore di gas mentre le sirene dei mezzi di soccorso e il correre dei vigili del fuoco e dei soccorritori dava il senso che davvero qualcosa, che fino a poche ore prima sembrava impossibile fosse successo. Quando, poco dopo le 1.06 i centralini dei vigili del fuoco, carabinieri e polizia iniziarono a suonare mezza Firenze era già in piedi, svegliata da quel forte boato che non era il terremoto come in molti pensarono. Ben presto in quel luogo, trasformato in uno scenario di guerra, arrivarono le autorità ma già il presidente dell’Accademia, ed ex Rettore dell’Università di Firenze Franco Scaramuzzi, cercava di avvicinarsi ai resti della Torre, e guidava i pompieri alla ricerca della famiglia Nencioni: Angela Fiume era la custode dell’istituzione e abitava con il marito e le due figlie in quelle stanze spazzate via dall’esplosione.
Negli occhi di tutti, a distanza di trent’anni, c’è l’immagine di un vigile del fuoco con in braccio un piccolo fagottino che corre verso un’ambulanza: per qualche attimo tutti sperarono che la piccola Caterina fosse ancora viva. L’ambulanza partì con le sirene ma fece pochi metri prima di fermarsi per un attimo e spengerle andando via senza. Il piccolo corpicino non dava più segni di vita. Altre immagini sono quelle delle scale degli stessi pompieri, utilizzate per evacuare dalle finestre dei palazzi i feriti ma anche il corpo senza vita dello studente Dario Capolicchio che, con la fidanzata, era in uno degli appartamenti che aveva preso fuoco.
Nel piazzale degli Uffizi arrivarono i responsabili della Galleria, il soprintendente era Antonio Paolucci ma tra i primi si presentarono Anna Maria Petrioli Tofani, allora direttrice, e Antonio Natali. I danni a uno dei musei più famosi nel mondo erano evidenti anche a occhi non esperti. Per alcune ore il procuratore capo Pier Luigi Vigna e il suo sostituto Gabriele Chelazzi, insieme ai vertici di polizia e carabinieri, continuarono a parlare di un’esplosione di gas, ma forse anche loro, dopo i primissimi controlli dei vigili del fuoco, non credevano a quella versione. Chi riuscì ad avvicinarsi a quelle piccole strade storiche, bloccate dai vigili del fuoco, e presto anche da un cordone di carabinieri e polizia, insieme all’odore di gas causato dalla rottura delle tubazioni in tutta la zona, sentiva pure un odore molto più acre, forte.
All’alba, intorno alle 6.00, qualche agenzia scrisse la notizia che l’esplosione poteva essere stata causata da una grossa carica di esplosivo, forse da un’autobomba. La notizia fece subito il giro del mondo e quei pochi telefonini di cui disponevano alcuni giornalisti, iniziarono a suonare. Tutti volevano capire, volevano vedere le immagini degli Uffizi. Ma c’era ancora da soccorrere i feriti e trovare gli ultimi corpi sotto le macerie della Torre del Pulci. Il fatto che a causare morte e distruzione fosse stata una mano assassina, quella che aveva guidato fino a lì il Fiat Fiorino riempito con quasi 300 chili di tritolo, era ormai una certezza anche se all’inizio nessuno riusciva a catalogare quell’atto atto terroristico.
L’indizio poteva essere le molte analogie con le stragi di un anno prima, a Capaci e in via d’Amelio a Palermo dove erano morti Falcone e Borsellino e gli uomini delle scorte. Ma Firenze era lontana dalla Sicilia: che interesse poteva avere la mafia? Eppure fu proprio questa la pista seguita dagli inquirenti fiorentini che ben presto collegarono a cosa nostra gli autori e i mandanti di quella strage. I successivi processi, portarono alle condanne degli esecutori e dei mandanti. La mafia con Firenze, aveva voluto mandare un messaggio ben preciso allo Stato.
Qualcuno dice che alla procura di Firenze ancora non si siano dati per vinti e si cerchino i così detti mandanti di primo livello, non più i boss mafiosi ma il livello polito a loro vicino. Trent’anni, insomma, non sono stati ancora sufficienti a chiudere una vicenda che, negli anni successivi porterà a nuovi attentati in Italia prima degli arresti e delle condanne e prima che lo stato dimostrasse che, nonostante tutto – i morti, i danni al patrimonio artistico e quant’altro – non aveva nessuna intenzione di arrendersi a un potere mafioso che piano piano come vedremo negli anni ha dovuto cambiare strategia e modo di essere. Firenze, fin da subito, rispose con forza: i fiorentini scesero in piazza Signoria a 24 a ore dall’esplosione mentre nei giornali e nelle televisioni di tutto il mondo la notizia dell’attentato era il titolo di testa, per dire che ancora una volta si sarebbe rialzata, avrebbe reagito anche a questa tragedia senza paura.