Vita Chiesa

SPE SALVI: LA SECONDA ENCICLICA DI BENEDETTO XVI DEDICATA ALLA SPERANZA

“Spe salvi facti sumus”. Si apre con queste parole, nella speranza siamo stati salvati, la Lettera Enciclica di Benedetto XVI, seconda del suo pontificato dopo “Deus caritas est” del 25 dicembre 2005, presentata questa mattina in Vaticano. “La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente”. È una delle prime affermazioni dell’Enciclica, su cui il Papa si domanda: “Ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l’affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti?”. L’“elemento distintivo dei cristiani”, risponde, consiste nel “fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”. “Il messaggio cristiano – prosegue – non era solo «informativo», ma «performativo». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del futuro è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”.

Nella prospettiva della speranza, tutto cambia per l’uomo: Benedetto XVI propone questa verità affermando che “la vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c’è una volontà personale, c’è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore”. “Forse oggi – spiega il Papa – molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo”. Aggiunge poi che la prospettiva dell’eternità non va considerata in chiave “individualistica”, come si trattasse di “una salvezza eterna soltanto privata”. “Questa vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all’essere nell’unione esistenziale con un «popolo» e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo «noi». Essa presuppone, appunto, l’esodo dalla prigionia del proprio «io», perché solo nell’apertura di questo soggetto universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull’amore stesso, su Dio”.

Nella parte centrale dell’Enciclica, il Papa affronta un tema che gli sta molto a cuore: il rapporto fede-ragione. Dopo aver ricordato lo sviluppo scientifico degli ultimi secoli, riferendosi al pensiero di Bacone scrive che “la restaurazione del «paradiso» perduto non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi”, e “grazie alla sinergia di scienza e prassi seguiranno scoperte totalmente nuove, emergerà un mondo totalmente nuovo, il regno dell’uomo”. La “concretizzazione politica di questa speranza” trova nella Rivoluzione francese e nell’Illuminismo due tappe fondamentali del “regno della ragione e della libertà”. Con Engels e Marx, aggiunge, “essendosi dileguata la verità dell’aldilà, si sarebbe ormai trattato di stabilire la verità dell’aldiqua. La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica”. Si domanda quindi: “Quand’è che la ragione domina veramente? Quando si è staccata da Dio?”. La risposta è che “un «regno di Dio» realizzato senza Dio – un regno quindi dell’uomo solo – si risolve inevitabilmente nella «fine perversa» di tutte le cose descritta da Kant”. Per questo “la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione”.

Occupandosi del “giudizio”, nella parte conclusiva dell’Enciclica, Benedetto XVI scrive che “nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro esistenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi con il male”. Il Papa allora chiede: “Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulato nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti?”. La risposta ridona il senso della speranza cristiana. “L’incontro con Lui (il Cristo) è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi”. “Nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro e il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza”.

La prospettiva finale che Benedetto XVI delinea al termine della sua seconda Enciclica è quindi di guardare con fiducia all’aldilà. “Alle anime dei defunti – scrive – può essere dato «ristoro e refrigerio» mediante l’Eucaristia, la preghiera e l’elemosina”. Secondo il Papa, “che l’amore possa giungere fin nell’aldilà (…) è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso i secoli”. Del resto, aggiunge che “nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo”. “Così la mia intercessione per l’altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte”. Benedetto XVI addita alla fine Maria, madre di Cristo, che nell’accogliere l’annuncio diviene “madre della speranza”. “Quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza – lei che con il suo «si» aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo?”.

Sir