Cultura & Società
«Souvenir» dal lager per non dimenticare
Ma più che un museo quello di Figline di Prato è un «monumento» alla memoria. Te ne accorgi subito quando varchi la porta. Ti assale subito una sensazione strana che presto si fa angoscia. L’ambiente è nella penombra. Il colore che tutto domina è il nero.
Il percorso non è lineare, ma frammentato, spezzato, «poiché dovevamo restituire il senso spiega il giovane architetto Alessandro Pagliai, che ha progettato il Museo dei tormenti di vite che potevano finire in ogni istante». Non ci sono vetrine. Ci sono dei grandi elementi dalla forma vagamente conica, neri anch’essi. Gli oggetti esposti te li devi quasi andare a cercare, perché sono visibili sempre nel lato più interno, mostrati da vetri irregolari, posti di sbieco. Ti devi abbassare o, talvolta, sforzare per vederli, perché come spiega ancora Pagliai «il visitatore deve in qualche modo capire la ricerca, la fatica, lo sforzo che ogni deportato doveva fare quotidianamente per trovare e conservare qualsiasi oggetto, a partire dalla gamella per mangiare».
Più che un museo, un monumento. Gli oggetti conservati non sono tanti. Ma non è il numero che conta. Certo, c’è il grande valore documentario. Ma è il simbolo o se vogliamo il monito che riescono ad esprimere, la loro grande forza. Quasi tutti sono oggetti originali, conservati dai deportati o ritrovati nel campo. Ma ci sono anche alcune significative ricostruzioni, come il portapietre di legno a forma di zaino con cinghie da spalla. I deportati ci dovevano caricare le pietre estratte nella cava. Era a Mauthausen, il campo principale da cui dipendeva anche Ebensee, che c’era la grande cava di pietra con la terribile scala di centottanta scalini da salire con il portapietre carico: era la «scala della morte». In una vetrina accanto, insieme ad altri utensili, c’è l’oliatore-lubrificatore, usato per il lavoro nelle gallerie. Il ricordo di Castellani è fissato anche nella didascalia a lato: «Se si faceva cadere delle gocce d’olio in terra, si riceveva tante bastonate dai Kapò. Qualche volta ti prendevano la testa, te la sbattevano in terra e te lo facevano leccare». Ci sono gli zoccoli, c’è il casco dei kapò, ci sono i manganelli di gomma, che entravano nella carne, c’è un cavalletto in legno questa è una ricostruzione che serviva per somministrare venticinque legnate sul sedere.
In fondo trovi una siringa originale, trovata anch’essa ad Ebensee: con le sue iniezioni di benzina chissà quanti ne sono morti.
Prima di uscire una grande vetrina, questa volta tutta trasparente: un mucchietto di ceneri umane provenienti da un forno crematorio chiude il percorso. «Le ho prese io», racconta Castellani.
Museo della deportazione. Centro di documentazione della Deportazione e della Resistenza, 59027 Figline di Prato, via Cangallo 250. Tel. 0574-461655 (Museo); 0574-470750 (Centro documentazione). E mail:museo.centrodeportazione@comune.prato.it http://deportazione.po-net.prato.it Personale qualificato, talvolta con il sostegno dei testimoni, è a disposizione, su appuntamento, di gruppi di scolaresche o altri per incontri e percorsi didattici con proiezioni e visite guidate al Museo. Orario: lunedì 9.30-12.30; 14-17; mercoledì 9.30-12.30; giovedì 14-17; venerdì 9.30-12.30; sabato 9.30-12.30; domenica 9.30-12.30; martedì chiuso