Lettere in redazione

Sostenere la Chiesa, l’esempio del Rwanda

Credo che non debba scandalizzare più di tanto, la decisione della Conferenza episcopale della Germania in merito alla esclusione dai sacramenti di coloro che si cancellano all’anagrafe come cattolici, per non pagare la quota dovuta alla Chiesa Cattolica, secondo le disposizione dell’Episcopato. A noi italiani e a noi cattolici italiani può fare una certa impressione, anche perché riteniamo, a mio avviso, discutibile, che tutto debba essere gratuito nella Chiesa e tanto più i sacramenti.

Però mi domando se sia normale che un cattolico, ma anche uno appartenente ad altre confessioni cristiane, non contribuisca con il proprio denaro allo svolgimento delle attività della propria Chiesa, pur potendolo fare. È come se un figlio che lavora, non partecipasse alle spese della sua famiglia, ma pretendesse di usufruire dei beni della famiglia. Come fa uno a dire di appartenere ad una comunità, ma poi non partecipa anche materialmente a provvedere ai bisogni di quella comunità?

Certamente c’è modo e modo di presentare certe esigenze, che però mi sembrano normali e logiche. Chi ha esperienza di parrocchia, compresi i laici che fanno parte dei Consigli amministrativi nelle parrocchie, sa benissimo che non poche persone si servono della parrocchia, esigendo battesimi, matrimoni, funerali ecc, e neppure dicono «grazie». Che significa questo? Significano che non sentono la propria appartenenza alla parrocchia, alla Chiesa. Però, pretendono, esigono. È proprio normale questo?Tra i precetti della Chiesa, che non sono stati aboliti, per quanto ne sappia, c’è anche quello di sovvenire ai bisogni della Chiesa.

Rimane un «ma» che riguarda il legame tra sostegno economico alla Chiesa e sacramenti. Racconto la mia esperienza durante la mia missione in Rwanda quarant’anni fa. La Conferenza episcopale del Rwanda aveva messo come obbligo l’aiuto dei fedeli alla propria parrocchia, anche legato alla vita sacramentale, in questo modo: annualmente, chi aveva un lavoro salariato (insegnanti p. es., ma anche altri) dovevano contribuire con due giornate di lavoro; nelle altre situazioni, gli uomini dovevano contribuire con l’equivalente in denaro di due giornate di lavoro; le donne con quello di una giornata di lavoro, i giovani con mezza giornata di lavoro. Coloro che non potevano perché poveri, erano dispensati dall’obbligo. E a tutti veniva data la ricevuta. Il compito di raccogliere il denaro era affidato ad alcuni laici responsabili della Comunità.

Parlo di cose di quarant’anni fa, in uno dei Paesi più poveri nel mondo di allora. Eppure, le parrocchie si sostenevano da sole senza dipendere dall’esterno, salvo per interventi straordinari. Allora, se in un Paese povero si può chiedere una partecipazione, con le dovute discrezioni, in un Paese ricco come la Germania non si può esigere che si dimostri anche visibilmente, con il proprio contributo, l’appartenenza alla Chiesa? La stessa cosa vale anche per i cattolici in Italia. Voglio vedere cosa succederebbe nel nostro Paese, se venisse tolto l’8 per mille alla Chiesa Cattolica.

Mi viene da pensare che è facile credere se non «costa» nulla! La mano sul cuore la mettono tutti, ma al portafoglio un po’ meno!

Franco Cerriparroco di Lunata (Lu)

Caro don Franco, le riflessioni che fai sul dovere per ogni cristiano di contribuire – secondo le sue possibilità – alle necessità della Chiesa sono giustissime e le sottoscrivo in pieno. Penso anche che quanto ci hai raccontato sulla tua esperienza in Rwanda dovrebbe essere di esempio e di stimolo per tutti noi. Resto però molto perplesso sul sistema tedesco della «Kirchensteuer» e sul recente pronunciamento della Conferenza episcopale tedesca, pur dovendo rimarcare ancora una volta che quella tassa a favore delle comunità religiose è il prodotto di vicende storiche molto diverse dalle nostre e che riguarda non solo i cattolici, ma anche le Chiese protestanti e la stessa comunità ebraica. 

Negli anni ’80, quando l’Italia e la Santa Sede decisero di rivedere congiuntamente i Patti Lateranensi si discusse molto su come sostituire l’antiquato sistema della «congrua» (che – è bene ricordarlo – era «figlio» degli espropri dei beni ecclesiastici operati a più riprese sia prima che dopo l’Unità d’Italia). In quell’occasione fu preso in esame anche il sistema tedesco, ma venne subito scartato, perché ritenuto poco adatto alla nostra realtà. Il nostro meccanismo dell’«8xmille», che poi è stato adottato anche da altri Paesi europei, è molto più rispettoso e della libertà della Chiesa e della libertà dei cittadini. Non comporta «iscrizioni» o «cancellazioni» e dà la possibilità ogni anno di devolvere una parte delle proprie tasse ad una comunità religiosa oppure di destinarla allo Stato, oltre che di portare in detrazione le cosiddette «offerte deducibili», destinate al sostentamento dei sacerdoti. Anche il tanto vituperato meccanismo della percentuale di firme (quello cioè che suddivide l’intero 8xmille dell’Irpef a seconda della percentuale di preferenze espresse e non in base al loro numero effettivo) favorisce – a mio avviso – questa libera adesione, senza creare troppe «pressioni». Se un difetto ce l’ha, questo sistema è nella destinazione dell’«8xmille» che i cittadini decidono di dare allo Stato e che dovrebbe essere utilizzato meglio e con più trasparenza.

Claudio Turrini