Pisa

SORELLA MORTE

di Graziella Teta La nota locuzione in lingua latina «memento mori» (ricordati che devi morire) trae origine da un’usanza tipica dell’antica Roma. Quando un generale rientrava in città dopo un trionfo bellico, sfilando nelle strade tra la folla che gli tributava onori, un servo tra i più umili era incaricato di pronunciargli la frase per arginare superbia e manie di grandezza. L’ordine di clausura dei trappisti, fondato nel 1664, adottò «memento mori» come motto: i monaci se lo ripetevano continuamente, e si scavavano da sé, un poco ogni giorno, la fossa destinata ad accoglierli, per tenere sempre presente l’idea della morte e quindi il senso della vita. I viaggiatori dei secoli scorsi usavano inserire nel bagaglio un «memento mori», ossia un piccolo quadro con raffigurata un’allegoria della morte: ricordava loro del rischio del viaggio, dal quale potevano non tornare, suggerendo prudenza.Oggi, invece, morte è parola tabù, che ha steso i suoi tentacoli fino alla malattia o al sospetto di essa; un tabù rafforzato dal silenzio sulle realtà eterne, che domina la società contemporanea tutta improntata all’efficientismo e all’apparenza. Esorcizzarla ad ogni costo, quasi a farne una parola innominabile è un atteggiamento diffuso. Conferma il teologo don Severino Dianich: «Se in passato usava richiamare il pensiero della morte in relazione al timore del giudizio di Dio, sollecitando quindi alla conversione, tale pensiero oggi non è più molto sentito nella spiritualità cristiana. La cultura contemporanea censura la cultura della morte: basti pensare che non si fanno quasi più funerali, e non si fa vedere il nonno morto al bambino temendo che l’esperienza lo danneggi». Così cresce infarcito di immagini di morte «mediata» (da tv, videogiochi, cronache di giornali), come se fossero meno dannose.Approfondiamo con don Dianich: «Un discorso sulla morte è fattibile fuori e dentro la prospettiva di fede. Fuori è una questione di maturità umana, il pensiero sulla morte non può essere censurato; una preparazione psicologica sulla fine della vita si impone. Dentro una prospettiva di fede è un pensiero carico di speranza e di responsabilità. La nostra religione è imperniata sulla fede della risurrezione, la morte come fine decisiva della vita terrena, per presentarsi nudi davanti al giudizio di Dio. Quindi, è sì fonte di consolazione, ma anche di responsabilità che deve segnare l’esistenza».La speranza è incontrare Dio che, per dirla con San Paolo, lo vediamo qui in terra per riflesso e per enigma, dopo morte lo vedremo sul serio. A proposito di santi, come hanno affrontato la fine della loro esistenza? «La storia dei santi è costellata da esperienze molto diverse, sia per situazioni, temperamento, aspetti della loro spiritualità: non mancano figure di “timorosi” né quelle che anelavano a raggiungerla, per raggiungere Cristo. A partire da San Paolo, che arriva al desiderio della morte per essere con Cristo, ma che pure desidera restare al servizio dei fratelli». Figure straordinarie cui riferirsi? «Attenzione – avverte don Dianich – i santi sono ideali molto alti cui è giusto aspirare, ma sempre mantenendo un senso umile e modesto di sé. Non nascondiamoci che lo strappo dalla vita è duro, anche per i dolori fisici che spesso l’accompagnano. C’è sempre la paura della morte».Qualcuno potrebbe richiamare l’ideale greco della cultura classica, come il filosofo Umberto Galimberti che confronta la morte di Socrate e quella di Gesù: «A differenza di Socrate, Gesù ha paura, non degli uomini che lo uccideranno, né dei dolori che precederanno la morte, Gesù ha paura della morte in sé, e perciò trema davvero…e non ha nulla della serenità di Socrate che con calma va incontro alla “grande amica”». «Nella cultura classica – dice Dianich – l’uomo era al centro, con la sua potenza, intelligenza, virtù. Ben diversa è la prospettiva cristiana che si gioca tutta sulla grazia di Dio. Gesù, assumendo la povertà degli uomini, trema sì pregando di allontanare da sé l’amaro calice, ma poi chiede che sia fatta non la sua ma la volontà del Padre». Come dire, il cristiano non deve essere un superuomo, e don Dianich ricorda un grande personaggio della chiesa pisana, il professor Sante Malatesta (di cui ricorre il 10° anniversario della morte, normalista di Fisica, maestro di vita), che diceva: «Sono felice della morte, ma ho paura del viaggio». Un esempio luminoso di «fede umana».Un altro, per il coraggio di esporsi in televisione, in un tg di prima serata, offrendo un volto scavato dalla sofferenza, è il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano (81 anni, ammalato di Parkinson), che ha testimoniato sulla sua malattia. E ancora, giusto un mese fa a Milano, dove è ritornato dopo gli anni di Gerusalemme, in occasione della presentazione dei suoi scritti su Paolo VI, Martini ha parlato della sua morte (nel suo libro la chiama «il duro calle»), che sente «imminente», e dichiarando di essersi «riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio».Gli darebbe ragione Thomas Merton, un maestro della spiritualità del Novecento, che nell’ultimo capitolo del suo «Nessun uomo è un’isola» scrive: «Se al momento della morte, questa viene a noi come uno straniero indesiderato, ciò sarà perché anche Cristo è stato sempre tale per noi. Perché quando viene la morte viene anche Cristo, portandoci quella vita eterna che ci ha acquistato con la propria morte. Perciò quelli che amano la vera vita pensano spesso alla loro morte».Ecco, pensiamoci, e non solo una volta all’anno nelle ricorrenze di Ognissanti e della commemorazione dei Defunti.