Lettere in redazione

Solo gli «atei devoti» difendono la famiglia

Quello che sta succedendo, in questi mesi, a proposito del ddl sui «Dico», ha veramente del paradossale. Infatti, mentre i cattolici militanti nell’Ulivo, o tacciono o parlano d’altro o, al massimo, quando proprio non ne possono fare a meno, si affidano alla furbizia del bizantinismo dialettico, il compito di difendere il diritto sacrosanto del Papa di esercitare il proprio alto Magistero, se lo sono assunto, quasi in esclusiva, gli atei, più o meno devoti.

Non è facile, purtroppo, trovare spazio sulla stampa, neppure quella cattolica, per tentare un minimo di chiarezza, su di una questione di tanta rilevanza, perché, un po’ ovunque, si tende, inspiegabilmente, ad enfatizzare, spesso in modo strumentale, tutto quello che mette in cattiva luce la Santa Sede.

In Italia, come si sa, a nessun politico è richiesto il certificato di professione di una qualsiasi fede religiosa, per cui, in caso di elezione, nessuno ha il diritto di impedirgli di votare tutte le leggi, che condivide, ivi comprese quelle sui matrimoni gay, sulle doppie o triple coppie di fatto, o, addirittura, sugli harem! Il problema, quindi, nasce quando quello stesso politico dichiara, liberamente e pubblicamente, di professare una particolare fede e va a chiedere i voti, per la propria elezione, a coloro che professano la sua stessa fede religiosa.

A questo punto, non essendo certo lui il depositario dei principi fondamentali del Cattolicesimo, all’interno dei quali, la famiglia, (quella fondata sul matrimonio fra un uomo ed una donna!) assume un ruolo di indiscussa centralità, ma, in primis il Papa e, a cascata, tutta la gerarchia, egli, il politico cattolico, non ha più alcuna possibilità di derogare dai precetti che gli vengono proposti da colui, (il Papa), che, per diretta investitura di Cristo, esercita, legittimamente, e con piena coerenza, il «mandato» ricevuto. E, di conseguenza, quando, su aspetti fondamentali della Dottrina, il Papa chiama, il cattolico non può fare finta di non sentire, ma deve solo obbedire. A meno che costui, cioè, questo cattolico fai da te, non decida, altrettanto liberamente, di revocare la propria primitiva, libera adesione al cattolicesimo, nel qual caso, com’è ovvio, il problema non si pone più, in alcun modo, perché costui, automaticamente, cessa di essere un politico cattolico, ma ridiventa un semplice politico, a cui, nè il Papa, né i Vescovi, né la Chiesa, nel suo complesso, potranno più chiedere alcunché.

Aurelio Coronese Lucca

on capisco bene a cosa si riferisca quando scrive che è difficile «trovare spazio sulla stampa», compreso quella cattolica. Noi, così come il quotidiano «Avvenire» e – a dire il vero – un po’ tutti i media cattolici, abbiamo dedicato molto spazio a questo tema, fin dall’inizio e con approfondimenti, interviste, commenti, schede. E mi sembra ingiusto anche affermare che la difesa della «famiglia fondata sul matrimonio» sia rimasta un esclusiva dei cosiddetti «atei devoti». Guardi il «primo piano» di questa settimana e potrà rendersi conto di quanta mobilitazione ci sia stata nel laicato cattolico per un appuntamento come il «family day» del 12 maggio. Che poi il cattolico impegnato in politica debba «ubbidire e basta» al magistero della Chiesa l’ho letto solo in qualche banalizzazione dei giornali laicisti. Nella recente Nota della Cei «su famiglia e iniziative legislative su unioni di fatto» si ricorda – con la recente Esortazione post-sinodale di Benedetto XVI «Sacramentum Caritatis» – che«i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della loro grave responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana». E al capoverso dopo si aggiunge che nel caso di «un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge». Sono «sfumature» dirà lei, ma la semplificazione e la banalizzazione rischia di rendere un pessimo servizio al magistero della Chiesa.

Claudio Turrini