Opinioni & Commenti

Sofri, sì alla grazia a patto che…

di Giuseppe AnzaniSe fare la grazia a Sofri vuol dire far tornare a casa una persona che continua a soffrire quando i patimenti fisici e psichici non producono più alcuna utilità sociale o individuale, siamo i primi ad augurarci che Sofri torni a casa. Non piace a nessuno vedere un altro soffrire. Men che meno quando il prolungamento della punizione non avesse più uno scopo da raggiungere, perché il lungo tempo trascorso dal delitto ha mutato l’uomo. Ma se la grazia fosse intesa come una specie di risarcimento, di rimedio, di riparazione perché Sofri sarebbe in carcere «ingiustamente», allora non ci siamo.

La grazia è un atto di Stato. Per lo Stato, Sofri è colpevole di omicidio, e per tale precisa condanna è stato messo in prigione. Alcuni pensano che quella condanna è stata sbagliata e che Sofri è innocente, vittima di un errore giudiziario; è probabile che questa idea se la siano fatta non per aver visto gli atti del processo, ma per aver sentito le opinioni che una campagna in certo senso «politica» ha martellato per anni. A costoro non saprei cosa dire, se non che la colpa o l’innocenza si giudicano non con la sfera di cristallo, o dicendo «è vero, lo sapevo» oppure «è falso, non ci crederò mai», ma attraverso i processi. Altrimenti, finché la valle di Giosafat non ci sveli la verità assoluta, i nostri scontri di opinione sarebbero tutti un vaniloquio. I processi sono lo strumento della giustizia umana, eguale per tutti, per raggiungere una certezza in merito a un delitto, un’accusa e una difesa, con tutte le garanzie. In democrazia, non abbiamo uno strumento migliore delle corti d’assise, d’appello, di cassazione. Sofri ha avuto un processo che è passato non per tre gradi, ma per nove gradi, comprese le revisioni. Il discorso sulla grazia, allora, può star bene se non diventa una obliqua sconfessione del giudizio; può star bene a patto di capire che «grazia» vuol dire «gratis».

Le ragioni di un gesto gratuito, che si fa remissione del debito espiatorio di un condannato, possono essere valide se si intende la pena non come una bruta equazione meccanica, ma come un percorso dove si può cogliere attraverso il tempo il mutamento del volto dell’uomo, divenuto altro, e decidere di riaccoglierlo senza più indugio. Queste ragioni, peraltro, debbono valere per ogni uomo, a parità di circostanze.

C’è un altro aspetto legato alla parola «grazia», più generale e radicale, che tocca il bisogno di staccarsi dal passato e dalle sue catene, e di investire il dono prezioso del tempo che resta in una novità della vita. Non potrei capire un atteggiamento indifferente, men che meno sprezzante, di chi «riceve» la grazia come fosse un creditore, senza un cenno a quella vicenda passata che – pur continuando lui a dirsi estraneo – ha pur seminato dolore e sangue. Come sarebbe umano, come sarebbe «grazia» dentro il cuore una parola, libera e gratuita di Sofri che cancellasse l’urlo di selvaggia e disumana gioia che «Lotta continua» lanciò all’indomani dell’omicidio Calabresi.

La grazia a Sofri continua a dividere

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