Vita Chiesa

Sinodo sull’Africa: piccole luci nel buio del Continente Nero

di Romanello Cantini

L’immagine della Chiesa del Continente Nero che è uscita dalle tre settimane di Sinodo dei vescovi sull’Africa riuniti a Roma è quella di una Chiesa più aperta e combattiva che certamente non nasconde le sue debolezze e le sue grandi difficoltà, ma si impegna con una nuova onestà intellettuale, con un inedito coraggio di denunzia e con una volontà di invenzione e di intervento nella società civile che ne dimostrano il suo dinamismo non solo in termini di crescita quantitativa.

La grande, devastante ondata di guerre africane della fine del secolo scorso si è in gran parte esaurita, ma ha lasciato nel continente una enorme eredità di devastazione, di lutti e di odio ancora quasi tutta da medicare e da guarire. Il tema del Sinodo dedicato alla verità e alla riconciliazione chiedeva ai cattolici africani, purtroppo così esperti di guerra, di impegnarsi in questa opera di ricerca delle cause dei conflitti e di farsi maestri anche per i resto del mondo sui modi e sui mezzi di ricostruire e mantenere la pace in comunità devastate nell’anima prima che nelle cose.

La Chiesa e l’Africa portano ciascuna nella loro cultura alcuni riti fondamentali di riconciliazione di una comunità che per certi aspetti fra l’altro si somigliano. La prima ha il sacramento della  confessione pubblica dei primi tempi. La seconda ha la cerimonia delle «chiacchere sotto l’albero» per cui il colpevole si confessa davanti alla comunità del villaggio e ne chiede il perdono. Lo spirito di queste due pratiche è in fondo alle origini dei giganteschi tentativi di pacificazione che si sono dovuti mettere in atto in Africa dopo che guerre civili globali avevano trascinato nel loro scontro  popoli interi come nel caso della lotta contro l’apartheid in Sudafrica e il massacro nel Biafra di quindici anni fa quando il numero dei responsabili del massacro fu quasi uguale al numero delle ottocentomila vittime.

Il lavoro fatto dalle Chiese africane anche sul piano istituzionale per prodigarsi negli ultimi tempi in questi nuovi processi di pacificazione è in genere sorprendente quanto sconosciuto. L’arcivescovo di Antanarivo nel Madagascar ha presieduto la commissione che nel febbraio scorso ha riportato la pace nella sua isola. In Burundi durante la guerra civile la Chiesa ha promosso «Sinodi della pace» che hanno contribuito alla tregua.

L’arcivescovo di Beira in Mozambico ha ricordato  che la Chiesa ha fatto da mediatrice per una pace che ha posto fine a sedici anni di guerra civile. Perfino in un paese come la Nigeria, dove il conflitto fra musulmani e cristiani cova sotto la cenere per esplodere sempre più spesso in terribili scontri  sanguinosi, monsignor Upko, arcivescovo di Calabar, ha ricordato che la Chiesa locale si adopera perché i cattolici nigeriani partecipino sempre più  numerosi alle commissioni di «Verità e riconciliazione»  promosse dai vescovi insieme ai fedeli di altre religioni, i responsabili dei media, della scuola e della società civile.

Anche se questo tipo di opera di pacificazione è certamente limitata e anche imperfetta la Chiesa non solo ci si impegna, ma ci mette del suo con la sua idea della pace come processo globale. Si è parlato molto al sinodo della esperienza delle Comunità Educative Viventi che intervengono  non solo nel cercare di sanare i conflitti interetnici, ma anche per cercare  di riconciliare le comunità divise dei villaggi e perfino le famiglie lacerate al loro interno.

L’Africa ha ancora i suoi problemi enormi e la sua dipendenza in termini di neocolonialismo dal mondo esterno. Ma all’ultimo Sinodo i vescovi africani, oltre che continuare a mettere l’accento sulle note piaghe di chi toglie le materie prime e vende le armi, hanno messo l’accento sugli effetti culturali più che economici di una globalizzazione che aggredisce i connotati della cultura africana come il riconoscimento della signoria di Dio su tutte le cose, la devozione alla  madre e all’anziano, la solidarietà alla famiglia, il culto degli antenati. E questa volta i vescovi hanno messo apertamente  sotto accusa anche la sete di potere e la corruzione di gran parte della classe dirigente africana. «L’Africa ha sete di buongoverno e una forma di potere incontrollato ha portato l’impunità» ha detto il cardinale Njie, arcivescovo di Nairobi (Kenia). «Il malgoverno – ha aggiunto l’arcivescovo di Dakar (Senegal) – è il cancro che divora il continente». Secondo l’eparca di Asmara (Eritrea) le tribolazioni dell’Africa sono dovute a «sete di potere e ad una brama sfrenata di possesso». «Come il profeta Geremia anche noi siamo invitati a pronunciarci contro gli abusi» ha detto il vescovo di Kasese (Uganda) anche perché «molti dei funzionari corrotti sono cristiani».

Molti padri hanno ricordato che in Africa la democrazia ha fatto dei progressi, ma in stati come il Gabon, la Libia, la Guinea equatoriale, l’Angola, il Camerun, il Burkina Faso, il Ciad lo stesso uomo rimane al potere per più di venti, trenta o quaranta anni seppure con una serie di elezioni plebiscitarie. Ed anche altrove «non ci sono più  singoli capi a vita, ma ci sono sempre gli stessi partiti», ha detto il cardinale di Durban (Sudafrica), ricordando che in Botwana, Angola, Zimbabwe, Mozambico non c’è stata alternanza dal tempo della indipendenza.

In molti interventi si è riconosciuto che l’Africa è non solo vittima, ma colpevole di razzismo soprattutto fra africani. Le ultime guerre del continente sono nate da conflitti tribali che continuano a dividere seppure in forma fredda gli stati, i paesi, le stesse comunità ecclesiali. Anche il potere spesso si basa sull’identità di una razza e considera la razza antagonista come il capro espiatorio di tutto. L’arcivescovo Ngoyagoye di Bujumbara in Burundi, uno dei paesi più insanguinati dallo scontro razziale fra hutu e tutsi, ha raccontato che ha dovuto promuovere incontri prima di quartiere, poi di collina, poi di regioni diverse per fare superare l’idea che una sola delle due razze ha dignità umana.

In questa opera di acculturazione alla pace e alla politica non è facile trovare gli strumenti in un continente dove ancora è forte l’analfabetismo e dove anche le scuole cattoliche, pur importanti, non hanno più di venti milioni di alunni. Ma moltissimi vescovi hanno ricordato che in quest’opera di diffusione della cultura della pace fra i gruppi etnici e di educazione civica nei confronti delle prevaricazione del potere la Chiesa si può ora avvalere soprattutto dei media in cui i cattolici africani hanno fatto negli ultimi quindici anni un vero salto da gigante, passando da 15 a 163 radio o televisioni prevalentemente a dimensione diocesana. I cattolici africani devono tenere testa ad altre sfide vecchie e nuove: la povertà, l’Aids, l’emigrazione, la stregoneria, i sacrifici delle religioni tradizionali, la famiglia cristiana che si tende a mettere ai margini fra la poligamia di ieri e il libertinaggio di domani.

La Chiesa africana deve fare fronte alla aggressività non solo del proselitismo musulmano, ma anche delle sette pentecostali. «Musulmani e chiese pentecostali stanno riversando milioni di dollari nei nostri paesi per attirare verso la loro religione» ha detto monsignor Muhiirma, vescovo di Fort Portal (Uganda). Sui rapporti interreligiosi dai lavori del Sinodo è traboccato sulla stampa solo l’episodio atroce della crocifissione dei sette giovani in Sudan, denunciata dal vescovo di Tombura Yambio nel Sud Sudan.

Ma, se l’informazione voleva essere completa anche solo su questo tema del martirio della Chiesa africana, bisognava aggiungere che negli ultimi quindici anni sono stati uccisi in Africa più di cinquecento cattolici, compresi otto vescovi e centinaia di sacerdoti e religiosi e religiose. Ed anche laddove il conflitto interreligioso lascia il posto a ad un minimo di dialogo è più facile con i musulmani trovarlo sul tema della povertà che su quello della pace. E tuttavia anche nei casi estremi c’è qualche lucciola di luce. Il vescovo Uzoukwo di Minna (Niger) che pure vive sotto la legge della Sharia ha ricordato che i suoi «Gruppi familiari della Misericordia pregano un’ora al giorno con le donne musulmane».

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