“Magari tutti i giorni si infrange il decalogo, ma esso rimane una componente essenziale della nostra cultura ed identità”: lo ha detto stamane in Vaticano, parlando coi giornalisti al termini dei lavori della mattinata nel Sinodo dei vescovi, mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura. Rispondendo a una domanda sull’insegnamento della religione cattolica nella scuola italiana, Ravasi ha sostenuto che “esso sarebbe da allargare ad un insegnamento soprattutto biblico per favorire la comprensione degli elementi essenziali della nostra cultura. La Bibbia infatti, con i suoi soggetti, simboli, figure, costituisce un ‘grande codice’ di cui l’occidente è intriso”. Ravasi ha citato a questo punto Nietzsche per approfondire il concetto, affermando che “tra la lettura di Pindaro o Petrarca e di un salmo biblico c’è la stessa differenza che si riscontra tra l’essere in terra straniera o in patria, perché la Bibbia è in effetti la nostra patria culturale comune”. Sul dibattito in aula circa la cultura biblica ha sottolineato che “sono emerse esperienze molto belle e valide presenti in numerosi nazioni e contesti continentali, dalle comunità di base alle scuole bibliche. Per noi cattolici questo è uno stimolo molto forte, perché ad esempio protestanti e ortodossi trovano una unità reale anche se non piena proprio attorno alla Bibbia”. Quello del rapporto dei giovani con la Parola è uno dei temi decisivi insieme con quello del linguaggio delle nuove generazioni. Lo ha ricordato oggi mons. Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio Consiglio per la cultura intervenendo ad un briefing con la stampa in occasione del Sinodo dei vescovi in corso in Vaticano. Il linguaggio dei giovani ha spiegato mons. Ravasi – già ha una grammatica diversa e sta acquistando forme sempre più nuove rispetto al normale linguaggio della nostra comunicazione. Non parlo di forme comunicative come i messaggini, di sms, ma di un linguaggio molto connotato. Se devo dunque pensare ad una pastorale della Bibbia per giovani il primo terreno è il linguaggio. L’esigenza, infatti, è quella di custodire il contenuto ed il messaggio. Non basta fare una cosa spumeggiante per attirare l’attenzione dei giovani, devo riuscire ad essenzializzare il contenuto delle Scritture in un linguaggio più ristretto. Se dieci anni fa i giovani avevano un vocabolario di 800 parole ora ne hanno uno di meno di 400, quando l’italiano ha 150 mila parole. La sfida sta qui: come fare per comprimere in questi 400 vocaboli la ricchezza del messaggio biblico. Credo che su questo campo le chiese dovranno impegnarsi molto. Non meno faticoso appare a mons. Ravasi – è poi comunicare la Bibbia ai bambini. In questo compito la famiglia gioca un ruolo fondamentale, in particolare la mamma, che è quella che sa meglio svelare la profondità del messaggio grazie ad una innata conoscenza simbolica.Sir