Vita Chiesa

Sinodo Amazzonia: card. Schönborn, «diaconato permanente è una delle proposte per rispondere a sfide pastorali»

«Il diaconato permanente è molto importante e significativo per la vita della Chiesa». Ne è convinto il card. Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della Conferenza episcopale austriaca, che durante il briefing odierno in Sala stampa vaticana ha citato il caso della sua diocesi, dove «ci sono 180 diaconi permanenti, che hanno una vita personale, professionale e familiare e prestano il loro servizio in parrocchia, nelle varie comunità e nell’ambiente sociale: nelle Caritas, negli ospedali, con i giovani… La maggior parte di loro sono sposati». «Il diaconato permanente è una delle possibilità che il Vaticano II ha aperto, ma da sempre era già nella vita della Chiesa», ha fatto notare il cardinale, secondo il quale «il diaconato permanente è una delle proposte per questa zona del mondo, per aiutare la pastorale in questo immenso territorio».

«Non sono mai stato in Amazzonia, ma ho ascoltato intensamente ciò che si vive in una regione decisiva per il clima del mondo», la testimonianza di  Schönborn sul Sinodo: «Non abbiamo da ammaestrare l’Amazzonia, ma dobbiamo dare il nostro contributo per dare voce ai popoli che sono minacciati, come ci esorta a fare Papa Francesco, quando raccomanda l’attenzione ai più poveri e dimenticati dalla politica del mondo». «Il tema ministeriale – ha sottolineato – è importante per questo Sinodo, fa parte dei nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia. Il ruolo delle donne nelle nostre comunità, insieme a quello dei ministri istituiti e dei ministri ordinati, è certamente un tema di cui si discute al Sinodo: vediamo quali saranno alla fine le proposte che verranno sottoposte al Santo Padre». Rispondendo ad una domanda sulla questione vocazionale,  il cardinale ha messo l’accento sul «problema della distribuzione del clero» e della «solidarietà vocazionale».

«L’Europa – ha detto – ha certamente una sovrabbondanza di preti: siamo grati all’aiuto dei presbiteri di altri Paesi, ma nello stesso tempo si pone una questione di giustizia» verso altre zone del mondo. «Dalla sola Colombia – ha fatto notare ad esempio l’arcivescovo di Vienna – 1.200 preti prestano il loro servizio negli Stati Uniti, in Canada e in Spagna. Almeno una parte di essi potrebbero essere disposti ad andare in Amazzonia». Di qui la necessità di «una autocritica da parte della Chiesa universale, nei confronti di quelle regioni che, come l’Amazzonia, si trovano a fronteggiare delle difficoltà pastorali».

«Essere Papa vuol dire essere criticato e amato», ha osservato il card. Christoph Schönborn, rispondendo alle domande dei giornalisti. «La critica fa parte dell’essere umano», ha precisato il cardinale: «Essere Papa significa essere criticato e amato da tantissime persone in tutto il mondo: ammirato e oggetto di gratitudine. Un miliardo e 200mila cattolici in tutto il mondo pregano per il Santo Padre e continueranno a farlo». Interpellato in merito ad una presunta particolare virulenza delle critiche a Papa Francesco rispetto ai suoi predecessori, Schönborn ha risposto che «Paolo VI era accusato di impedire il progresso, ma era il Papa». «Ho avuto rapporti stretti con Giovanni Paolo II e sono stato studente di Benedetto XVI, ho collaborato con lui per la stesura del Catechismo della Chiesa Cattolica», ha proseguito l’arcivescovo di Vienna: «Non ho mai visto la minima opposizione. Ci sono differenze, perché ogni Papa ha la sua storia e il suo carattere. Ma è sempre il Papa. È molto chiaro, per me, il fatto di essere fedele al Papa».

«Sarebbe un segno molto forte se la Chiesa riuscisse a limitare l’uso dell’oro nei suoi sacramenti e liturgie». A lanciare la provocazione, durante il briefing odierno, è stato padre Dario Bossi, superiore provinciale dei Missionari Comboniani in Brasile, membro della Repam e della Rete Iglesias y Minería, che ha messo in guardia dal pericolo che i «cercatori d’oro» rappresentano per la regione amazzonica. «Per un anello d’oro vengono spostati quintali di terra», ha reso noto il missionario ponendo l’accento sulle conseguenze che tutto ciò ha per l’ecosistema amazzonico: «Fiumi inquinati, pesci con una quantità enorme di mercurio, che contaminano intere comunità». Sono i danni dell’«estrattivismo predatorio» delle multinazionali. «Nel nostro territorio – ha raccontato – c’è la più grande miniera a cielo aperto di estrazione di ferro del mondo, con un processo di esportazione lungo 900 chilometri, che attraversa più di 100 comunità» e nella sua rotta incrocia anche l’Ilva. «Da 30 anni l’Amazzonia soffre di inquinamento dei fiumi, di rifiuti tossici e di rumori», ha fatto notare il religioso citando tra i frutti di questa politica dissennata il disboscamento e l’inquinamento. «L’associazione tra governo e grandi imprese è molto pericolosa», la denuncia di padre Bossi: «Si modificano le leggi e si riducono i controlli ambientali». Anche la Chiesa, l’appello del missionario, può fare la sua parte per combattere questa deriva: «Esiste una riflessione sull’uso dell’oro, che è quello che più evidentemente ne illustra l’illogicità. Solo il 10% dell’oro viene usato per processi effettivamente utili, come l’impiego in medicina, il resto viene stoccato e usato per l’oreficeria».

«Per gli indigeni il pericolo più grande è l’invisibilità: quando sei invisibile, non hai diritti». A spiegarlo è Marcivana Rodrigues Paiva, rappresentante del gruppo etnico sateré mawé, in Brasile, che nel briefing ha parlato della questione dell’«urbanizzazione» come fenomeno sempre crescente per i popoli indigeni, che sottratti alle loro terre migrano verso i grandi centri urbani. Soltanto a Manaus, ad esempio, «ci sono 45 popolazioni indigene, 35mila abitanti in tutto, che parlano 16 lingue diverse». «Senza territorio, non abbiamo diritto alla nostra identità», ha denunciato Marcivana, lanciando un appello per «sostenere le popolazioni indigene che arrivano in città» attraverso una «pastorale indigena» a loro indirizzata.

«L’Amazzonia è una donna violata di cui occorre raccogliere il grido». Ne è convinto mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, uno dei membri del Sinodo per l’Amazzonia scelti personalmente dal Papa, intervenuto al briefing odierno in Sala stampa vaticana. «L’Amazzonia è una metafora della terra, soggetta a vari tipi di violenza», ha proseguito il vescovo, citando il caso del terremoto che nell’agosto del 2016 ha colpito il Centro Italia, provocando quasi 250 vittime e dimostrando come «il problema del rapporto tra l’uomo e l’ambiente è ancora irrisolto: in una terra ‘ballerina’ come la nostra, serve non solo iniziare la ricostruzione, che 38 mesi dopo è ancora di là da venire, ma occorre una ‘rigenerazione’ fatta su rigorosi criteri ecosostenibili. Se il terremoto del Centro Italia fosse avvenuto in Giappone, sarebbe stato soltanto una pagina di cronaca e non il dramma che hanno vissuto quattro regioni, 174 comuni, decine di migliaia di sfollati». Questioni come il terremoto o la devastazione dell’Amazzonia, la tesi di Pompili, «chiamano in causa tutti: sono una questione irrisolta all’interno di una questione più grande che anche in Italia, come già accade in America Latina, comincia ad imporsi in quello che una volta veniva definito il Paese dei cento campanili. E tutto questo, per una sorta di esasperata laboriosità economica che tende a privilegiare i grandi centri rispetto alle aree interne». «Lo sviluppo non è un processo rettilineo che va dal negativo al positivo», ha fatto notare il vescovo di Rieti: «Dopo la crisi del 2008, ci siamo accorti una volta di più che il progresso non è una freccia rettilinea, ma conosce momenti di default». Di qui la necessità di chiedersi «come rendere compatibile lo sviluppo con il rispetto degli standard di sostenibilità».