Cultura & Società

«Sindrome di Peter Pan», bambini adulti e adulti bambini

di Franco VaccariNon so come si chiama, sta davanti alla porta di un piccolo bar di una piazzetta del centro storico, è minuto e basso di statura, un faccino pallido un po’ nascosto da un bel ciuffo di capelli corvini. Indossa una giacchetta di due taglie più grandi e le mani che a fatica sbucano dalle lunghe maniche tengono in mano una bottiglia di birra e una sigaretta. I suoi compagni gli stanno attorno, in fogge simili con altrettanti «birrini».

Un giovane più grande, che lo conosce, mi ha detto che ha 11 anni. Lo incrocio ogni sabato pomeriggio, passandogli accanto e sentendomi attratto dalla sua maschera di imberbe smarrito, sostenuto da coetanei goffi nella loro pubblica ostentazione di puerili e dannose trasgressioni. Malattia di un’epoca.

Suo padre dov’è? Non so se esista né dove eventualmente abiti. Della madre il ragazzino ne dà notizia a una compagna che descrive la propria così: «Mia madre è bella, giovane, intelligente, fortunata. Tutti le fanno i complimenti. Se la gode. La invidio! Non sarò mai come lei! Mi vergogno di quello che provo…» La tredicenne che dice questo condensa in due righe l’altra faccia simmetrica della malattia d’epoca: i «vecchi giovanili». «Ma come sei giovanile!», «no, come sei giovanile tu!». Questo dialogo non avviene nei parchi, spingendo carrozzine. Si snoda nei corridoi degli ospedali o delle università, nelle aule dei tribunali, passa per la buvette di Montecitorio, approda nelle assemblee delle associazioni di categoria.

Questa famiglia, a metà strada tra realtà e uno dei nostri romanzi o film contemporanei, offre un’immagine sdoppiata di un processo che si sta accelerando: comparsa precoce di taluni comportamenti e persistenza di altri in età avanzate. Se nei giovani adulti o negli adulti maturi molti ravvisano i comportamenti della cosiddetta sindrome di Peter Pan, è altrettanto constatabile un anticipo di comportamenti diversi nella preadolescenza e nell’infanzia.

La sindrome di Peter Pan preoccupa molti ricercatori. I dati che arrivano da recenti ricerche, svolte un po’ in tutta Europa, tratteggiano una percentuale crescente di persone della fascia di età tra i 30 e i 50 anni che esprimono resistenze alla crescita, angoscia per l’imminente o già raggiunta condizione di adulti, improbabili fughe regressive, in cui si condividono con i coetanei atteggiamenti e comportamenti nostalgici di tipo adolescenziale: ragazzate, zingarate.

Ma all’altro capo della vita, un pugno di mesi dopo la nascita, il costume muta con rapidità sorprendente. Queste madri e questi padri distratti, allevano i propri figli – è il caso di dirlo perché nei casi presi in esame non si può parlare di educazione – spesso concedendo loro l’anticipo di molte autonomie, consentendo ore e ore di tv o l’accesso a internet senza filtri o l’acquisto di tecnologie ignote, cominciando dai videogiochi di cui non si sono vagliati i contenuti. La chiamano autonomia precoce.

Si realizza con una nuova strana forma di vigilanza dei genitori: la Walt Disney ha messo sul mercato un telefonino con solo quattro tasti colorati: casa, babbo, mamma, nonni. Già lo usano e chiamano papà in ufficio dalla scuola materna. Io proporrei un nome più adeguato: irresponsabilità avanzata davanti a rischi precoci dagli esiti irreversibili. Il bambino toscano, morto qualche giorno fa, che si è trovato a giocare da solo in casa con la pistola carica del padre, lasciata a portata di mano, è una tragedia reale che si carica, al di là del fatto specifico, di una forza simbolica devastante.

Sono gli stessi giovani di 19 anni che raccontano il loro stupore davanti ai comportamenti di fratelli o amici più giovani di cinque anni. Si raffrontano e non regge un indicatore: si truccano prima, escono il sabato sera prima, tornano a casa dopo, parlano di esperienze sessuali «mordi e fuggi» che, anche se si realizzassero nella sola fantasia, inquietano. Questi giovani osservano, con stupore, quegli stessi genitori che alcuni anni addietro accompagnavano loro e li riprendevano in discoteca, magari uscendo di casa dopo mezzanotte, mezzi assonnati, che adesso, invece, dicono «va be’ se ti riaccompagnano gli amici… basta che non bevano».

Vedono i due pesi e le due misure, e non ne sono felici. Anzi, sono preoccupati. E, guardando il futuro, i migliori non vogliono entrare a far parte di una categoria in crescita: i «nullafacenti», né lavoro né studio. È interessante intervistare questi giovani che non vogliono dare la colpa alla società che certamente ne ha.Peter Pan, infatti, ricompare con forza anche perché le condizioni sociali ed economiche protraggono i tempi della «dipendenza». Sollecitati a studiare sempre di più, l’autonomia slitta, ma, inesorabilmente, chiedere a 27 anni alla mamma i soldi per la benzina o la pizza rende un po’ tutti Peter Pan. Cresce il loro fastidio per questa condizione di dipendenza e se uno sguardo superficiale potrebbe cogliere un adagiamento su rendite di posizione, un orecchio più attento è in grado di percepire in realtà il disagio che cova e vorrebbe canalizzarsi in strade capaci di costruire comportamenti di nuova responsabilità.

Questo processo duplice, apparentemente contraddittorio, potrebbe legittimare alcune previsioni, ma ormai le scienze sociali invitano alla prudenza sulle analisi di comportamenti con presunto valore predittivo.

Infatti la società appare tutta scomposta in modo inedito e i segmenti di vita ridisegnano i percorsi di maturazione e crescita attraverso un vasto campionario di «prove ed errori». È vero, le condizioni oggettive sono cambiate e continuano in questa trasformazione accelerata, ma… «Natura non facit saltus» o, se si preferisce «C’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo». Come comporre questa nuova frattura fra «natura» e «cultura»? Come ascoltare e accogliere gli utili e necessari progressi di ciascuna età, contrastando rischi e pericoli devastanti sotto il profilo psicologico e sociale?

Difficile rispondere. Una specifica letteratura si sta sviluppando in proposito. Forse risorse potrebbero essere attinte nelle fasce di età successive ai bambini-adulti e agli adulti-bambini che arrivano alla soglia dei 50.E se fosse il tempo degli ultracinquantenni e degli anziani? Se dovessero lasciare da parte quel loro perenne senso di colpa per non aver prodotto una società nuova, rivoluzionaria, radicalmente diversa e la smettessero per questo di avere comportamenti compensatori, volti a togliere ogni difficoltà ai loro figli e nipoti? Se smettessero di coprirli di attenzioni materiali? Se smettessero di assumere ruoli che non sono loro propri: nonni-padri e nonne-madri? Se accettassero la sfida di crescite che recano dolori necessari e ne sopportassero il peso?

Forse i quarantenni potrebbero riappropriarsi del loro ruolo di adulti, di padri e di madri, capaci di coniugare attenzione per se stessi e vigilanza autentica per i propri figli.

E, forse, questi potrebbero smettere, a loro volta, di giocare il ruolo di goffi e pseudoemancipati.

Il libro: Dalla fiaba al complesso«Credo che le fiabe parlino alla nostra anima e ci illuminino senza innalzare schemi di comportamento e allo stesso tempo senza sottrarci la responsabilità tutta nostra di trovare a noi stessi la via interiore. Ho scelto la fiaba di Peter Pan, del bambino che non voleva diventare grande, perché è poco esplorata e perché, più di qualsiasi altro personaggio, Peter Pan è rimasto nell’immaginario collettivo rappresentando il bisogno di evasione di buona parte della società contemporanea». Così si legge nella prefazione del libro La favola di Peter Pan e la sindrome di Peter Pan, di Maria Rosaria Costanza (Edizioni Seam, pagine 146, 15 euro). Il volume raccoglie alcune conversazioni-interviste sul tema fra l’autrice, laureata in pedagogia ed esperta in scienze della comunicazione, e personaggi appartenenti a «mondi» diversi: un antropologo, un’attrice, un regista, un neuropsichiatra, un cardinale. La postfazione è di Gianna Marrone, esperta in letteratura per l’infanzia.Il cardinale in questione è mons. Ersilio Tonini, arcivescovo emerito di Ravenna-Cervia che così spiega la sindrome di Peter Pan: «Il ragazzo è soggetto, contemporaneamente, a più tentazioni, a più tensioni: tra il reale e l’ideale, che può essere sopra il rigo o sotto il rigo. Essere figlio nelle mani di un uomo anziché essere figli di un’ape o di una formica, costituisce un rischio. Il ragazzo che cresce, cresce predestinato a diventare un uomo, con dentro di sé la propria libertà e la natura che gli fornisce delle indicazioni, ma niente di più. la natura lascia, pertanto, al ragazzo che cresce, la responsabilità dell’autogoverno. Alla nascita il ragazzo riceve “il materiale”, poi tocca a lui dargli una modellatura. E spesso è a questo punto che si lascia prendere dall’impazienza; dalla voglia di realizzare presto, di sognare ma in grande, di anticipare la giovinezza, quindi la sua potenza; dal desiderio di emergere sopra agli altri ad ogni costo. Moltissimi di questi ragazzi sono creature che non accettano il reale, lo vogliono alla loro maniera. Ecco il complesso di Peter Pan».