Opinioni & Commenti

Sicurezza, un «disegno» contrario al bene comune e alla nostra tradizione

di Giuseppe Savagnone

Una legge non è soltanto un provvedimento tecnico per sanare situazioni problematiche createsi nel passato, ma indica una direzione per il futuro ed educa a uno stile di vita. È stato così di quelle sul divorzio e sull’aborto, sarebbe stato così di quella sui Dico, sarebbe così di una eventuale legge che prevedesse il «diritto alla morte». Per quanto serie, le motivazioni a favore di questi provvedimenti non possono compensare il danno che deriva al bene comune da una violazione della dignità umana e da un imbarbarimento dei rapporti tra le persone.

Il disegno di legge sulla sicurezza, appena approvato dalla Camera, appartiene sicuramente al novero di quelle misure legislative che incidono sull’orizzonte valoriale di una società. Anche di esso, dunque, è necessario chiedersi non solo se è tecnicamente funzionale all’obiettivo della sicurezza, ma anche e soprattutto quale prospettiva antropologica ed etica prefigura.

Ora, ferma restando la complessità del problema dell’immigrazione, per cui nessuno ha «ricette» infallibili, è necessario dire alto e forte – con la stessa fermezza con cui abbiamo respinto altre normative che facevano violenza alle persone e alle loro relazioni fondamentali – che il disegno di legge in questione è gravemente lesivo del bene comune, perché contiene delle norme che discriminano gli esseri umani in base alla loro identità etnica e trasformano la loro condizione di forestieri in quella di criminali.

Qualcuno obietterà che un clandestino è sicuramente in una situazione irregolare. Questo è vero. Anche se bisognerebbe chiedersi se non siano le eccezionali restrizioni alla regolarizzazione, già in vigore nel nostro paese, a determinare  questa situazione. In ogni caso, il disegno di legge appena approvato non mira affatto a favorire il superamento della condizione di illegalità (anzi il disegno di legge aggiunge, alle già gravose difficoltà esistenti, il pagamento obbligatorio di una tassa per avere il permesso di soggiorno), ma, al contrario, la esaspera, trasformando quella che fino ad oggi era soltanto un’irregolarità in un vero e proprio reato, perseguibile penalmente, e facendo del clandestino stesso un criminale.

In questo modo diventa obbligatoria, da parte dei pubblici ufficiali, la loro denuncia. Da questo punto di vista l’abolizione della norma dei cosiddetti «presidi-spia» appare del tutto illusoria, perché i dirigenti scolastici, in quanto pubblici ufficiali, saranno comunque costretti, a norma di legge, alla denunzia dei clandestini che vorranno iscriversi nei loro istituti.

È solo un esempio della logica che anima tutto il provvedimento e che si esprime anche nelle restrizioni al ricongiungimento familiare, nel rifiuto di registrazione, all’anagrafe dei figli degli irregolari, nel rifiuto dell’iscrizione anagrafica se l’abitazione non risponde ai requisiti igienico-sanitari, nell’aggravio automatico della pena se un qualunque reato è commesso da un clandestino. È in sintonia con queste norme quella sul  prolungamento fino a sei mesi della permanenza obbligatoria i quei veri e propri lager che, con un involontario sarcasmo, vengono chiamati «Centri di accoglienza». Gli irregolari vengono «cancellati», privati di ogni diritto, di ogni dignità.

Insieme alla nuova strategia del «respingimento», annunciata dal ministro Maroni come una «svolta» – e che è stata condannata dall’Onu perché riconsegna automaticamente, a governi che non accettano le convenzioni sui diritti umani, anche i dissidenti politici e religiosi –, la nuova legge  sulla sicurezza si presenta come un provvedimento radicalmente incompatibile non solo con la solidarietà di cui parla la dottrina sociale della Chiesa, ma anche con il rispetto dei più elementari diritti umani. C’è da chiedersi se anche per la stessa sicurezza essa non sia in realtà un grave pericolo. Ma quanto si è detto basta per dire che contrasta con la nostra civiltà giuridica e con la migliore tradizione del nostro paese.