Italia
Settimana sociale: Gorli, rifondare immaginario del “noi”
La docente di Psicologia delle relazioni all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha tenuto una relazione su “La democrazia del noi: per una nuova grammatica della collaborazione"
“Il lavorare con e in relazione agli altri deve tornare a poggiare sulla possibilità di desiderare e nel desiderio produrre nuovi immaginari”. Lo ha affermato questa mattina Mara Gorli, docente di Psicologia delle relazioni all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nella sua relazione “La democrazia del noi: per una nuova grammatica della collaborazione” pronunciata nella seconda assemblea plenaria della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia, ospitata al GCC – Generali Convention Center di Trieste.
La docente ha rilevato che “il ‘noi’ è una relazione che si ciba della grande ricchezza costitutiva delle relazioni. Ma facciamo attenzione all’idea di un noi sociale armonico, pacifico, dove ciascuno trova il proprio posto e da lì può gestire il bene comune. E dobbiamo avere in mente che nelle relazioni noi ci mettiamo tensioni, interazioni e solitudini”. In “un mondo che ci amplia lo spazio dell’autodeterminazione”, Gorli ha individuato due rischi: “l’‘io’ che si mangia il ‘noi’” e “il ‘noi’ che si mangia l’‘io’”.
E ha indicato una “bella tensione che ci mette in scacco: da un lato c’è la tendenza a fare, a concentrarsi su milioni di attività e progetti, lottiamo contro il tempo riempiendo l’agenda; dall’altro c’è la spinta a mollare tutto, con depressioni, dipendenze”. “Rispetto a questa doppia tensione dobbiamo trovare un equilibrio”.
La docente ha invitato a “rifondare un immaginario del ‘noi’, avendo a cuore nuove capacità responsive” sapendo che “il gruppo può sostenere la forza di tanti ma può anche imprigionare, imbrigliare, affaticare le persone per la mancanza di respiro”. Anche per questo “oggi, rispetto al Novecento, i gruppi e i movimenti sono meno di moda”, ha notato perché si ha un’idea di “libertà come non avere vincoli, legami”. E “se tanto ci vuole per creare il legame ci vuole pochissimo per scioglierlo”.
“A volte costruiamo sopra la forza nostra e degli altri. E questo ci dà l’illusione che i progetti saranno più decisivi. Costruire dalle fragilità nostre e degli altri significa trovare una direzione più utile e vera”. Ha aggiunto la docente che ha rilevato come “la domanda del nostro tempo è il riconoscimento, abbiamo bisogno che l’altro ci dica continuamente chi siamo e se siamo riconosciuti”.
E “se il gruppo mi dà riconoscimento bene, altrimenti cambierò gruppo andando alla ricerca di altri riconoscimenti”, ha proseguito. Dopo aver osservato che in certi casi “l’appartenenza viene utilizzata più in senso difensivo che non costruttivo”, Gorli ha indicato che un altro rischio è rappresentato dalla “produzione continua di attività e progetti che rendono il gruppo visibile”.
“Ma questo – ha commentato – diventa quasi una forma di autocelebrazione togliendo aree di sosta per il pensiero”. “Un altro rischio che mina l’investimento sul gruppo e sulla collaborazione è la continua ricerca del grande leader, quella figura chiave che rappresenta tutti, in cui identificarsi”. “Ma sappiamo bene – ha evidenziato – che le forti leadership ad un certo punto cadono, non soddisfano più portando con sé lo slegamento del gruppo”.
Gorli ha indicati sei attenzioni per “riportare fiducia alle relazioni sociali”. Innanzitutto “le persone collaborano se pensate come soggetti e non come individui”; poi bisogna “concentrare lo sguardo sulla followership e non sulla leadership”; è necessario inoltre “valorizzare il capitale sociale, curando quell’insieme di relazioni e reti che creano collante” sapendo “aprirsi all’esterno per non chiudere il gruppo in rifugi autocelebrativi” al cui interno si genererebbero “dinamiche competitive”.
“Quanto facciamo attenzione al capitale che lega rispetto a quello che fa ponte?”, ha domandato Gorli. Un altro punto essenziale è “prestare attenzione alla narrazione di situazioni e processi, sapendo che nel mondo di oggi la narrazione è decisiva sia per aprire scenari di diffidenza sia per quelli di curiosità e fiducia”; per questo non basta “raccontare le buone pratiche” ma va pensato “come raccontarle”, “nella consapevolezza di portare valori controcorrente”.
Fondamentale “nei processi collaborazione” e “scambiare più informazione e conoscenza, rafforzare la coesione nell’agire ‘tra’ e ‘inter’ portando l’ascolto porta a porta, attraversando i confini, stando sul confine, alimentando i dialoghi intergenerazionali, immaginando nuove identità in dialogo, valorizzando l’autenticità e la vulnerabilità”.
Infine, serve “intraprendere e sviluppare processi di riflessività critica” che “aiutino a mettere in discussione i propri assunti e le proprie rappresentazioni, capovolgendo – se possibile – gli immaginari e tornando ad un nuovo pensabile e desiderabile”.
“Proviamo a restare nell’umiltà – l’esortazione conclusiva – nella domanda aperta, nella curiosità del periodo ipotetico: ‘E se non fosse come ho sempre guardato…?’, ‘E se avessi ragione tu…?’, ‘E se immaginassi qualcosa d’altro…?’”.