Dossier

Settant’anni fa la Liberazione della Toscana

Liberata Roma il 4 giugno 1944, gli alleati iniziano l’avanzata verso il nord, percorreranno 150 km in 15 giorni. Il 20 giugno i tedeschi (secondo la logica della ritirata aggressiva) si attestano su una linea che si snoda lungo l’Ombrone, l’Orcia e il lago Trasimeno. Dal 30 giugno al 3 luglio si ritirano su una seconda linea va da Cecina a Volterra ad Arezzo per ritardare l’arrivo alla Linea Gotica che sbarra l’accesso alla valle del Po. Il tributo di sangue e sofferenze delle popolazioni toscane sarà altissimo. Durerà undici mesi il calvario. Il numero delle vittime è elevatissimo e sono innumerevoli i luoghi – città, paesi, borghi, frazioni – colpiti. Ferite che ancora continuano a dolere e spingono a non dimenticare.

Grosseto è il primo capoluogo di provincia liberato. La mattina del 15 giugno i tedeschi, presi alla sprovvista dal fuoco dei partigiani, cominciano ad arrendersi alla spicciolata non ricevendo più rinforzi perché le strade sono bloccate. Nel pomeriggio i primi americani entrano a Grosseto, già liberata dai partigiani, una costante destinata a ripetersi spesso in Toscana. Nei vari centri della provincia si continua a combattere.

La zona della Val d’Orcia è teatro di forti scontri fra paracadutisti tedeschi e francesi che arrivano a Siena all’alba del 3 luglio, sostenuti dall’intensa attività dei partigiani. Particolari circostanze impediscono ai partigiani di precederli nella liberazione della città: il fronte stabilizzatosi a sud della città impedisce l’avvicinamento delle formazioni partigiane a Siena.

«Arezzo è stata liberata dai partigiani della XXIII brigata Pio Borri», l’annuncio è dato il 16 luglio da Radio Londra. Quando i primi reparti alleati arrivano in città, trovano i posti di blocco partigiani, una linea difensiva a nord dell’abitato, le vie del centro e gli edifici pubblici presidiati, autorità amministrative e di polizia già riattivate dal Cln.

Il 19 luglio, reparti della V armata americana, preceduti dai garibaldini della 3ª brigata «Val di Cecina» entrano in Livorno. Il porto è completamente bloccato dai rottami e da navi affondate, gran parte della città è ridotta a un cumulo di macerie, pieno di insidie diaboliche. È definita la «città più minata d’Italia»: saranno trovati più di 25 mila di questi odiosi congegni. Molti civili e soldati rimarranno uccisi o feriti.

Il mese di luglio a Firenze è stato denso di avvenimenti; l’avvicinarsi delle truppe alleate ha intensificato l’attività dei partigiani che disarmano molti fascisti e tedeschi. Nella notte del 3 agosto ’44 i genieri tedeschi distruggono tutti i ponti. Resta solo il Ponte Vecchio, il ponte favorito del Führer; il prezzo è altissimo, scompaiono via de’ Bardi, via Guicciardini, borgo San Jacopo, Por Santa Maria, lungarno Acciaioli, torri e palazzi degli antichi quartieri medievali sono ridotti a uno cumulo di macerie cosparse di mine, alcuni fiorentini ci lasceranno la vita. All’alba del 4 le prime avanguardie dell’VIII armata britannica arrivano a Porta Romana. Fino al 10 agosto, partigiani e alleati combattono su due fronti: contro i tedeschi appostati sulla riva dell’Arno e i franchi tiratori che dai tetti sparano su tutti, combattenti ma anche civili inermi. Nelle prime ore dell’11 agosto gli squilli della Martinella, la campana di Palazzo Vecchio, chiamano i fiorentini all’insurrezione. La «battaglia di Firenze» si protrae fino al 20 agosto: da una parte alleati e partigiani, dall’altra i tedeschi e l’insidia dei franchi tiratori.

Il 1° settembre anche Fiesole è liberata dai partigiani; nella notte i tedeschi in ritirata hanno incendiato una notevole quantità di tritolo depositato nelle cantine del seminario, provocandone l’esplosione. È solo grazie alla solidità dell’edificio che circa 300 rifugiati civili si salvano. Il 12 agosto tre carabinieri Alberto La Rocca, Vittorio Marandola e Fulvio Sbarretti si consegnano ai tedeschi per salvare 10 ostaggi e subito dopo sono fucilati.

Firenzuola, Palazzuolo e Marradi sono gli ultimi centri della provincia fiorentina a essere liberati alla fine di settembre. Fino all’aprile ’45 costituiranno l’immediata retrovia della Linea Gotica: un insieme di difese naturali e fortificazioni, casematte, valli anticarro e zone minate, quelle che per molti anni ancora dopo la fine della guerra faranno ancora molte vittime tra i civili.

Il fronte ristagna lungo l’Arno: Pisa è spaccata letteralmente in due. Solo nei primi giorni di settembre sarà liberata. Dal 17 luglio sono cominciati i duelli di artiglieria tra alleati e tedeschi che, pochi giorni dopo, fanno saltare tutti i ponti e una parte degli argini dell’Arno, ridotto a una trincea. Chi ancora si trova tra le rovine della zona nord è ai limiti della sopravvivenza. Un residuo di speranza è rappresentato dal complesso ospedaliero di S. Chiara di cui è stato ideatore e guida mons. Gabriele Vettori. Il problema più grosso è quello dell’approvvigionamento alimentare: il comando tedesco ha ordinato il coprifuoco di 22 ore su 24, praticamente si può uscire dall’ospedale solo dalle 10 alle 12. In due ore è pressoché impossibile raggiungere le vicine campagne per avere un po’ di cibo. La mattina del 2 settembre i primi soldati alleati entrano in Pisa insieme ai partigiani della 23ª brigata Garibaldi. Il quadro è desolante: la città ha subìto 54 attacchi aerei alleati e quasi la metà delle abitazioni è distrutta; enormi danni hanno riportato gli impianti industriali, l’acquedotto, le condutture del gas a causa delle razzie naziste. La provincia di Pisa è tra le più colpite dalle rappresaglie nazifasciste che si sono abbattute sulla popolazione civile.

Gli alleati incalzano i tedeschi ormai a ridosso della linea Gotica. Lucca è liberata tra il 4 e il 5 settembre. Nella notte il comitato di liberazione ha ordinato la mobilitazione generale per attaccare alle spalle i nazisti. Il 5 settembre, soldati della quinta armata americana entrano in città che, grazie alle formazioni partigiane, già si è quasi del tutto liberata dai nazifascisti. Lucca è liberata, ma per altri sette mesi vivrà nel terribile clima della guerra, con il fronte che si è attestato in Garfagnana e in Versilia, a circa 30 chilometri dalla città.

Il 6 settembre entrano in Prato partigiani della brigata «Buricchi». Nei giorni precedenti hanno attaccato i tedeschi in ritirata che hanno sfogato la loro rabbia sulla città, distruggendo impianti industriali e strutture civili. Il giorno della liberazione di Prato, 30 partigiani sono bloccati dai tedeschi, rimasti a Figline di Prato a coprire la ritirata. Ventinove di loro saranno impiccati.

Pistoia è ridotta a una città fantasma. I terribili bombardamenti alleati, le rappresaglie nazifasciste hanno reso impossibile ogni forma di vita organizzata. Ponti, strade, installazioni industriali, mulini e altre strutture civili sono distrutti dai tedeschi in ritirata. L’8 settembre formazioni partigiane convergono su Pistoia, scontrandosi con le retroguardie tedesche. Nella tarda mattinata giunge un reparto di sudafricani. Occorreranno diversi mesi per liberare le zone montane, a ridosso della linea Gotica. Il 1° ottobre ’44 i primi reparti alleati arrivano a Cutigliano, si pensa che il peggio sia passato, invece l’avanzata degli angloamericani si arresta. Il paese è diviso a metà, da una parte gli alleati, dall’altra i tedeschi. Solo il l5 aprile ’45 sarà liberato completamente. Dieci giorni dopo è liberato anche l’Abetone, dove sono rimaste solo due persone, Pietro Petrucci e sua moglie.

Divisa dalla Linea Gotica, la provincia di Massa è per oltre nove mesi un campo di battaglia. I tedeschi ordinano lo sgombero della città, praticamente rasa al suolo. La popolazione è provata dalla fame, dall’asprezza degli scontri, dai molti eccidi spaventosi compiuti dai nazifascisti.

Tra l’8 e il 9 novembre ’44, Carrara è temporaneamente liberata dai partigiani. Dopo avere inutilmente invitato gli alleati (che sostano inattivi sulla Gotica) a occupare la città, i partigiani devono ritornare sulle posizioni di montagna. Il ripiegamento avviene dopo la conclusione di un accordo che permette la liberazione di 18 ostaggi e impegna i tedeschi a rispettare come zona franca la città che conta in quei giorni oltre 100 mila abitanti a causa della massiccia presenza degli sfollati.

Il coraggio delle donne di Carrara impedisce la deportazione dell’intera città e salva la popolazione dalla fame. Migliaia di donne si recano a piedi, portando sacchi o trascinando carretti, attraverso le erte montagne, fino all’Emilia per scambiarvi con farina, legumi e carni secche il sale ricavato dall’acqua marina. Al loro ritorno, esse devono poi superare gli sbarramenti nazifascisti che spesso le depredano di quanto loro sono riuscite a procurarsi. Piero Calamandrei chiamerà queste donne apuane «formiche umane».

Massa è liberata il 10 aprile ’45, ma rimarrà sotto il fuoco delle artiglierie tedesche per altri cinque giorni. Il giorno dopo gli alleati entrano in Carrara, già occupata dalle formazioni partigiane.

Parroci e religiosi punto di riferimento

In tempi in cui l’equilibrio della ragione era rotto e la violenza aveva il sopravvento, la Chiesa è un punto di speranza. Mentre il tessuto civile si disintegra e la gente nelle città, nei paesi, nelle campagne, sui monti è abbandonata alle mercé e alla violenza de1l’invasore, la parrocchia, pur tra mille difficoltà, resta salda e compatta e esercitando un provvidenziale servizio di supplenza, un vero e proprio faro di speranza.

Vescovi e parroci non risparmieranno energie per la difesa di quanti, bisognosi di protezione, chiedono aiuto, senza distinzione di parte. Secondo quanto riporta il volume edito a cura della Cet («Chiese toscane – Cronache di guerra 1940 – 1945», Libreria editrice fiorentina, curato da mons. Giulio Villani), i vescovi toscani avevano dato disposizioni che vietavano al clero «attività e responsabilità che comprometterebbero gli interessi delle anime» e biasimavano «quei pochissimi ecclesiastici che agiscono diversamente, prendendo parte ad azioni politiche». Si vietava quindi ogni forma adesione tanto alla repubblica sociale italiana – risorto fascismo dopo il 25 luglio e l’8 settembre 1943 – quanto al movimento clandestino di resistenza, di cui i partigiani costituivano le formazioni di lotta armata. I vescovi con il loro intervento intendevano riaffermate il carattere pastorale della missione della chiesa che non ammette scelte di parte. Tuttavia, era già in atto un diffuso fenomeno di rifiuto del fascismo. Contro il «regime» si era stabilito da tempo un clima di «resistenza ideale», basato sul recupero di valori, da quelli disattesi, come democrazia, libertà, pace. Va notato in proposito che i motivi religiosi di rifiuto della propaganda dell’odio e il comportamento dei preti che restano al loro posto accanto al popolo, con il quale spartiscono casa, pane, croce, speranze, contribuiscono a svuotare di dentro la retorica, l’enfasi e lo spirito di violenza.

L’operato del clero a fianco della gente costerà molto alla Chiesa toscana che paga un altissimo tributo in vite umane. Sono 75 le vittime, il numero più alto in Italia. Tra morti e dispersi nel clero secolare in Toscana sono da annoverare 47 parroci, 8 viceparroci, 7 cappellani militari, 6 appartenenti ad altri uffici, 7 chierici e seminaristi. A questi sono da aggiungere gli appartenenti agli ordini religiosi (clero regolare) e altri sacerdoti uccisi per motivi connessi alla lotta politica del dopoguerra. La diocesi più colpita è stata Arezzo con 16 caduti, seguita da Pisa con 11, Apuania 9, Prato e Pontremoli 7, Fiesole e Firenze 5. I Certosini sono i più colpiti tra gli ordini religiosi. Da ricordare l’eccidio di Farneta con l’uccisione di tutti i componenti di quella comunità. La maggior parte dei sacerdoti e religiosi uccisi avrebbe avuto salva la vita, se avessero avuto maggior cura di se stessi. Non sono in genere delle vittime occasionali. Caduti, uccisi, sacrificati; non hanno fuggito il loro posto e le loro responsabilità.

Le cifre, pur nella loro naturale freddezza, ci rivelano inaspettati e singolari primati di sacrificio. Un bilancio purtroppo non completo, perché per molti episodi di cui si ha notizia, non è possibile appurare particolari certi.

Rastrellamenti e rappresaglie, quel tributo pagato dai civili e spesso rimasto impunito

Migliaia di nomi, centinaia di località fanno da sfondo a una lunga scia di eccidi perpetrati dai tedeschi, dai primi giorni dell’occupazione alle fasi più immediatamente legate allo spostamento del fronte, soprattutto fra la liberazione di Roma e l’assestamento della linea Gotica tra il giugno e l’ottobre del 1944. Eccidi che non appaiono attribuibili a episodi ostili di rilevanza militare, ma allo stato di insicurezza di un esercito in ritirata che per vendetta o per aprirsi la strada si scatena contro civili inermi, nella speranza o nella illusione di garantirsi la via della fuga o la tranquillità delle retrovie.

Un lungo elenco che comprende i civili rastrellati e uccisi dopo azioni partigiane, i civili uccisi casualmente, gli ostaggi già detenuti e giustiziati per rappresaglia, le donne uccise e varie altre categorie. In complesso di oltre 260 «episodi» con un totale di più di 4 mila vittime civili (circa 240 sono quelli verificatisi tra il l° giugno ed il 30 settembre con un totale di circa 3.700 vittime). Undici episodi si riferiscono alla esecuzione di circa 40 renitenti alla leva, 37 alla uccisione di 99 presunti partigiani, 52 a quella di 305 partigiani catturati.

Alcuni esempi di stragi compiute lungo il percorso appenninico (tra parentesi il numero delle vittime): 13 aprile Vallucciole (108); 9 giugno Civitella (162); 12 agosto S. Anna di Stazzema (560 ); 23 agosto Fucecchio (120); 24 agosto Vinca (147); 16 settembre Bergiola Foscalina (72).

La ripetitività di questi episodi fa pensare a generiche azioni di intimidazione, non si sa neppure se fondate sul sospetto o su indizi relativi alla presenza di partigiani. Bisogna concludere che certamente diffusa era non soltanto nei soldati ma anche nei comandi una mentalità che non considerava la popolazione inerme degna di alcuna considerazione, che faceva parte della guerra fare pagare alla popolazione un tributo di sangue, quasi a vendicarsi nei suoi confronti delle difficoltà nelle quali gli occupanti venivano a trovarsi, invece di chiederne conto a chi li aveva costretti in una situazione praticamente senza via d’uscita. L’odio per le popolazioni, considerate come copertura di un nemico invisibile, faceva parte ancora una volta dei frutti dell’educazione alla guerra di annientamento.

Dei 400 casi di stragi accertate in Italia, molte delle quali i Toscana, solo una decina diedero luogo a un processo, con condanne esemplari come quelle inflitte a Herbert Kappler per le Fosse Ardeatine e Walter Reder per Marzabotto. Nel gennaio 1960 con un semplice timbro e una illegale scritta in burocratese, «archiviazione provvisoria»,  sono stati sepolti in un armadio  695 fascicoli riguardanti le stragi tedesche in Italia. Nell’ottobre 2012. La Procura di Stoccarda ha archiviato l’inchiesta per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, la località fra Lucca e Massa, in cui il 12 agosto 1944 furono massacrati 560 civili. Senza colpevoli per la giustizia tedesca, è stato detto, come se la storia si potesse archiviare così, senza un processo.