Cultura & Società
Se l’abito fa la sposa
Per lungo tempo furono le famiglie a scegliere per i giovani ed i due arrivavano ad unirsi in alcuni casi senza essersi mai visti prima, o dopo essersi incontrati di sfuggita e mai da soli. Non si conoscevano e ciò rendeva la futura convivenza un salto nel buio.
Fra i casi più inquietanti che la storia ci tramanda c’è quello di Maria Luigia d’Austria, la seconda moglie di Napoleone. Era la figlia del più fiero avversario del còrso e fin da bambina lo aveva identificato con il nemico. Lei e suo fratello avevano un pupazzo di legno, che chiamavano Napoleone e a cui tendevano agguati: lo trascinavano per i viali di Schönbrunn, lo insultavano, o sbatacchiavano. Ebbene, a Maria Luisa toccò sposare proprio Napoleone per motivi politici e per di più per procura.
È stato sempre importante il ruolo della sposa nella storia e la cerimonia fin dall’antichità si è centrata su di lei ed un valore particolare hanno assunto abito e velo. In ambito romano, la vestizione della ragazza precedeva alcuni riti particolari come la offerta a Giove di una focaccia di farro (confarreatio), mescolato con sale, che sanciva la unione e a cui assistevano il pontefice massimo, il flamen Dialis (il sacerdote del padre degli dei) e dieci cittadini, in rappresentanza delle antiche tribù, come testimoni.
Il rituale cambiò da periodo a periodo e in rapporto anche allo stato sociale degli sposi: parte integrante ne era il banchetto, insieme al finto ratto della sposa, al corteo verso la casa maritale, con canti di tipo scherzoso. Sulla soglia il marito domandava alla moglie il suo nome. La ragazza rispondeva con la formula di rito Ubi tu Caius, ego Caia intendendo dire che lo avrebbe seguito dovunque e sarebbe stata vicina a lui sempre, fiera di essere la moglie romana di un uomo romano (Caius è il prenome più antico e tipico della latinità). Poi la sposa veniva trasportata al di là dell’ingresso e fatta sedere sul lectus genialis (il talamo nuziale): la pronuba pronunciava le preghiere di rito. Una costante era il flammeum, il velo color fiamma di cui si copriva la donna nella cerimonia ed era anche l’antica bandiera rossa che indicava la presenza della nozze in una casa. Era il colore della modestia, legato all’ arrossire della fanciulla, o il rosso del fuoco dell’amore che si augurava agli sposi, o allusione al sangue del primo rapporto o a quello della nascita dei figli. Il bianco, simbolo della verginità, della purezza, arrivò molto dopo.
Anche nel Medio Evo e nel Rinascimento l’abito da sposa era particolarmente ricco: per donne come Eleonora di Toledo costituì il pezzo forte del loro guardaroba, pieno di velluti, ricami, pietre preziose, maniche importanti, a dimostrare ricchezza e potenza delle due famiglie (quella di origine e quella in cui entrava). E veniamo ai nostri tempi: la sposa in bianco è da qualche secolo la norma. Ne fanno fede i matrimoni reali, succedutisi negli ultimi trecento anni; lo prova il velo che appunto da circa tre secoli indossano le spose della casata dei Ruffo di Calabria: cinque metri di pizzo, un vero tesoro di famiglia. Una nuvola di dieci metri di candido tulle, sorretto da un diadema di perle e brillanti si sono tramandate la regina Federica di Grecia, la figlia Sofia, sovrana di Spagna e la nipote, l’infanta Elena. Quest’ultima, ragazza moderna, che non aveva voluto damigelle al seguito, rimase incastrata nel portone centrale della chiesa e i paggetti che la seguivano cominciarono a calpestare il prezioso cimelio e a saltarci sopra fra l’imbarazzo e il divertimento di tutti.
Nulla a che vedere con i leggendari pranzi rinascimentali, quando le unioni matrimoniali fra casate illustri costituivano un prezioso aiuto sullo scacchiere della politica. È famoso il menù che rallegrò i convitati all’unione fra Roberto Malatesta e la giovane Isabetta nel giugno 1475: schiacciate di pinoli e mandorle, torte di formaggio e di erbette, capponi lessi in salsa di mandorle, arrosto «al savor verde» (una salsa simile al pesto). Fu solo l’inizio. Seguirono: prosciutto cotto nel vino, torte dolci-salate, anatre in «salsa ginestrina» (con zafferano e zenzero), arrosto di fagiani e pavoni, insalate di radici amare, storioni lessi, pesci farciti, ostriche ed una incredibile quantità di dolci in cui si sbizzarrì l’arte dei maestri pasticceri, capaci di riprodurre in pasta di mandorle perfino le rocche di famiglia dei Malatesta. Insomma ci fu un consumo di 8.600 paia di polli, 45.000 uova, 180 prosciutti, 40 forme di parmigiano, 13.000 arance, il tutto innaffiato da 120 botti di vino. E vissero felici e contenti, e non fecero nemmeno indigestione.