Vita Chiesa

Se la parrocchia si apre all’immigrato

di Marco Proietti CecchettiLa Giornata Nazionale delle Migrazioni rappresenta un’occasione importante per tutte le comunità ecclesiali per comprendere come rinnovare la propria azione pastorale: non è più possibile immaginare una società senza il confronto-incontro con altri popoli e religioni. E se l’assistenza materiale a favore degli immigrati è una realtà diffusa all’interno delle parrocchie e di molte realtà ecclesiali, la questione resta ancora tutta da affrontare dal punto di vista pastorale.

Abbiamo sentito, su questi temi, don Alessandro Cecchi direttore dell’Ufficio Migranti della diocesi di Prato, rivolgendogli alcune domande.

Quale è stato il ruolo principale della Chiesa locale in questi ultimi quindici anni nei confronti degli immigrati?

«Inutile negare che, in questi anni, la Chiesa è stata fortemente interpellata sul piano operativo per rispondere ai moltissimi bisogni di chi si è trovato a partire più perché non poteva rimanere nella propria terra, che perché sapeva dove andare; questo ha finito per condizionare la percezione dell’immigrato come principalmente “colui che ha bisogno” e al quale ci si rapporta nell’atteggiamento del “dare”. Con le emergenze conosciute dal nostro paese (dall’esodo albanese in poi) probabilmente ci è difficile pensare a qualcosa di diverso, ma oggi avvertiamo che quello sguardo ci sta abbastanza stretto, che abbiamo bisogno di allargare gli orizzonti».

Quali aspetti emergono nelle realtà parrocchiali che lei conosce?

«Nella zona Pastorale sud della mia diocesi abbiamo rilevato la situazione in dieci parrocchie. La fotografia che è apparsa ci rimanda a una immagine di comunità con poche richieste di sacramenti da parte degli immigrati; ci può essere una presa in carico di carattere assistenziale o, per chi ha gli spazi, sporadiche iniziative sportive che diventano l’occasione per contatti fra gruppi etnici e residenti. La benedizione delle famiglie è in genere momento propizio per monitorare la presenza di famiglie o gruppi, come pure di conoscere luoghi di culto di altre confessioni religiose».

In questa realtà che lei ci descrive, gli immigrati cristiani quale rapporto hanno con la comunità ecclesiale?

«A fronte della grande visibilità e delle cifre circa la presenza degli immigrati in Toscana, i rapporti con le parrocchie sono sporadici. Per gli immigrati cristiani forse possiamo pensare alle stesse crisi di partecipazione che ormai da diversi anni interessano anche le nostre chiese, spesso si registra anche una grande mobilità lavorativa che scoraggia appartenenze significative (soprattutto per chi fa lavori domestici e di assistenza, con ridotti tempi liberi)».

Quali sono i diversi tipi di approccio per affrontare questi problemi?

«È abbastanza aperta la riflessione sul ruolo che la comunità può avere per contrastare processi di esclusione e favorire l’integrazione: ruolo attivo e propositivo (ad esempio organizzazione di iniziative ad hoc per immigrati) oppure ruolo di “presente attesa” che cerca di accogliere l’esigenze che possono emergere da singoli o gruppi etnici. In entrambi i casi, comunque, la competenza principale richiesta alla comunità cristiana sembra essere quella dell’apertura, dell’accoglienza “come Cristo accolse voi”, secondo lo slogan della giornata per le migrazioni dello scorso anno; infatti nessuno può dirsi “di diritto” discepolo di Gesù ma (ed è una dignità maggiore) un “accolto”».