Recenti e gravissimi fatti di cronaca, come le tragiche morti da suicidio avvenute ad Arezzo e Passignano e da omicidio avvenute a Foiano della Chiana, suscitano vecchie e nuove riflessioni, non esenti come siamo dall’ipocrisia di sentirci coinvolti tanto maggiormente quanto più le tragedie ci sono geograficamente vicine. Sono tante le considerazioni e le parole, anche di rabbia, che in questo momento la mente vorrebbe esprimere. Non è facile contenerle e, proprio per questo, mentre altri faranno altre analisi, mi limito a sottolineare gli interrogativi di chi è abituato a gettare lo sguardo dalla parte della famiglia.Nelle cronache di questi giorni emerge evidente un dato di fatto assolutamente comune: la fragilità nella gestione di se stessi. Perché sempre più persone non ce la fanno a gestire la propria vita, tanto da porle fine o da sconvolgerla con qualcosa di irreparabile? Questo non accadeva venti o trenta o quaranta anni fa, quando, per giunta, il nostro benessere era certamente inferiore, senza che nessuno si sogni di dire che quest’aumento del livello della nostra vita sia un male di per sé. Potremmo liquidare il discorso richiamandoci alle attuali e note incertezze dei nostri giovani nel trovare un lavoro stabile e nel mettere su famiglia, ma non può bastare alla nostra generazione, figlia o nipote di gente che in quanto ad incertezze aveva solo da insegnare, emigrando chissà dove incontro all’apparente nulla.Perché, allora, il nostro sistema produce uomini e donne debolissimi, costantemente sull’orlo di gettare la spugna? Non nego che i fattori siano tanti e di ordini e competenze diverse. Ma rimango per un momento sul tema del benessere per chiedermi se, forse, non è stata e non è la sua pessima gestione a renderci così carenti di coraggio, quel coraggio che (ahimé) è sempre prima o poi richiesto nell’affrontare la vita.Il coraggio è la speranza che dà forza e motivo alle scelte. Le scelte sono la strada, sempre tortuosa ed accidentata, della costruzione di identità vera ed autonoma pretesa dal nostro istinto più bello e radicale. Mi chiedo se è questo tipo di pedagogia che si impara oggi in amiglia. Se si insegna ai nostri figli ad affrontare il domani infondendogli il coraggio e la speranza su di esso ed il valore, per loro e per tutti, di un’autentica autonomia. Oppure se li convinciamo, fin da piccolissimi ed a piccole dosi quotidiane di assensi su tutto, che forse si può fare in modo che il domani proprio non venga il domani; che si può risiedere in un eterno presente, dove cullarsi nella pretesa drogata di eliminare e rimandare all’infinito ogni appuntamento con la sofferenza; dove ci si convince che ogni giorno è fatto di un nuovo regalo (ormai scontato).Esisteva una pedagogia del coraggio e delle responsabilità in famiglia che preparava ad affrontare con serenità e coscienza la vita da adulto e che ha contribuito in modo determinante a fare costruire, a quegli uomini, quel benessere che oggi respiriamo. Esiste, oggi, invece, una pedagogia delle retrovie, tesa esclusivamente a mettere in pratica l’utopia che i nostri figli possano non soffrire mai, la quale consuma in fretta un benessere ereditato e getta oscure ombre su quanti ancora si troveranno improvvisamente catapultati nel confronto con la vita, senza riuscire, purtroppo, a sopportarne il peso.Iacopo Gori