Opinioni & Commenti

Se la detenzione diventa umanamente indegna

di Giuseppe AnzaniAl volgere della legislatura, e a maggior ragione con l’alternanza del governo, viene spontaneo fare una panoramica sulla situazione generale del paese, sui problemi della gente, sui programmi, sui conti. In questa ricognizione non può mancare l’esame delle condizioni di vita di quella parte di popolazione che vive reclusa dietro le sbarre, in espiazione di pena o in attesa di giudizio. È parte di noi, delle nostre famiglie, delle nostre vicende; non è fatta di esclusi o di espulsi. La società tiene giusto il castigo per chi ha sbagliato nel calpestare i diritti altrui e per ammonire; ma lo scopo ultimo della pena è quello di togliere il reo dalla via del delitto, recuperarlo, emendarlo.

Al mondo del carcere, isola di sofferenza, la gente presta un’attenzione discontinua; a volte si turba nel sentire che le condizioni di vita, il disagio e il dolore, sono al limite del sopportabile, e chiede maggiore umanità e qualche gesto di clemenza; altre volte, pressata dall’allarme sociale dei quotidiani delitti si sente assediata dalla criminalità diffusa, e chiede rigore inflessibile. I dibattiti ricorrenti sull’amnistia e sull’indulto, che negli ultimi tempi hanno accompagnato speranze e disperazioni, ne raccolgono i sintomi.

In Italia, il problema cruciale del sistema carcerario è il sovraffollamento, 60mila detenuti stipati in uno spazio sufficiente per 40mila. È un sovrappiù di sofferenza, rispetto alla privazione della libertà, che aggiunge qualcosa di ingiustamente crudele, sul piano della dignità umana. Più che redimere, genera semi di aggressività e di violenza. Quanto si è discusso, da Beccaria in poi, sulla filosofia del castigo, sulla giustificazione e sullo scopo, su quel che si paga e quel che si investe mettendo un uomo in ceppi; sull’equazione retributiva del taglione, occhio per occhio; sulla forza dissuasiva e intimidativa; sul ravvedimento e sull’emenda. Il rispetto della dignità umana è il primo ingrediente della riabilitazione che la pena insegue. Se manca la dignità della persona, se la punizione è «umanamente indegna», tutto si perverte e diviene un controsenso, un brutale esercizio che rincalza il puro dogma della forza, senza un orizzonte etico, e persino senza utilità.

Un carcere così è fuorilegge. Non ci metto parole mie, lascio parlare la legge n. 354 del 1975, che dice come devono essere fatti gli edifici penitenziari, per «accogliere un numero non elevato di detenuti»; e come devono essere i locali di soggiorno e di pernottamento; e le attrezzature per le attività lavorative, scolastiche, ricreative, culturali; e poi il trattamento rieducativo «individualizzato»; e poi i contatti risocializzanti con il mondo esterno; e poi, e poi infinite cose che par di sognare, e che sono rimaste nel cassetto dei sogni; o per dirla più chiara nel cassonetto delle promesse tradite. È gravissimo che lo sappiamo tutti, parlamento e governo compresi, e che si neghi ripetutamente un gesto di clemenza pur minimo, una goccia d’acqua nell’arsura dei disperati.

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