Opinioni & Commenti
Se il mondo non riesce ad aiutarsi
di Riccardo Moro
Che sta accadendo in Myanmar? Possibile che la comunità internazionale dopo un disastro delle proporzioni di quello birmano non riesca a far arrivare il proprio aiuto alle popolazioni colpite? Questa domanda sta attraversando l’opinione pubblica mondiale, incredula nell’ascoltare le notizie che giungono da Rangoon. È una domanda fondata. La tv birmana parla di meno di 30 mila morti e mostra con grande enfasi pacchi alimentari donati personalmente dai membri della giunta militare alla popolazione. Peccato che le stime ufficiali Onu abbiano superato le 100 mila vittime e i 200 mila dispersi e che i pacchi mostrati dalla tv siano quelli offerti dal Pam, il programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, largamente insufficienti alle reale necessità dell’emergenza per dichiarazione stessa del Pam. Senza citare altri esempi, che purtroppo non mancano, possiamo affermare che esiste oggi un grave problema in Birmania costituito dalla resistenza che il governo dei militari pone sia all’arrivo degli aiuti, sia a quello degli operatori umanitari, con un disprezzo impressionante della propria popolazione.
Molti si chiedono se non si può in qualche modo intervenire. La domanda rivela che guardiamo al diritto e alle istituzioni internazionali con aspettative superiori a quanto da soli possono offrire. Siamo abituati a pensare che diritto e istituzioni siano in grado di «dominare» il comportamento dei singoli quando questo contravviene ai principi su cui quel diritto è fondato. In realtà, per quanti accorgimenti giuridici possiamo creare, le leggi e le istituzioni diventano sterili nella loro funzione di promozione della vita se manca la politica.
C’è il principio di sovranità territoriale, ma anche quello dell’ingerenza umanitaria. Ma, come si può immaginare, rimane materia molto delicata, nella quale le valutazioni e il ruolo della politica sono massimi. Con questo non intendiamo affermare che le regole e i principi non servano. Al contrario intendiamo ribadire che sono fondamentali, ma sterili senza la politica, senza l’assunzione di responsabilità dei cittadini e dei loro rappresentanti.
Allora per Myanmar, senza consenso sul diritto all’ingerenza umanitaria, non deve prevalere il pessimismo per la sterilità delle regole, ma la concretezza. Servono determinazione, coordinamento e visione strategica. Determinazione ad agire: sebbene le difficoltà siano enormi, aiutare in questo momento è possibile. E molti lo stanno facendo. Occorre concordare priorità e interventi, per non sovrapporsi, né dimenticare qualcuno. E fare fronte comune con istituzioni internazionali, politica e media, aumentando la pressione sul governo locale per consentire non solo gli ingressi ma anche la mobilità interna.
Infine, ci vuole una visione strategica: in un paese dove la capacità di assorbimento è minima, proprio per la scarsa libertà e trasparenza, le risorse suscitate dalla tragedia devono essere usate guardando oltre l’emergenza, per sostenere un percorso di autentico sviluppo e promozione umana durevole. Dunque niente pessimismi, ma iniziative coordinate e assunzione di responsabilità politica esigente, sia da parte della società civile sia del governo. Rinunciare scoraggiati o offrire disponibilità generiche significa lasciare da solo il popolo birmano. Una pena crudele dopo la tragedia.