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Se il fatto più importante della vita è la morte

di Rodolfo DoniAspettando sulla pensilina un treno per Roma – ero giovanissimo – colsi da un signore che parlava accanto con la moglie questa frase: «Il fatto più importante della vita è la morte…». Alzai gli occhi; era Piero Calamandrei, fiorentino, uno dei maggiori giuristi italiani, e con Dossetti, La Pira e altri costituzionalisti andava a Roma per scrivere la Costituzione. È una frase che mi è sempre rimasta in mente, contenendo una triste ma profonda verità. E mi torna in mente specialmente oggi in cui non si deve parlare della morte, specialmente ai giovani, e quando la si nomina… si fanno gli scongiuri.Calamandrei non era forse neppure credente, ma si poneva eccome il problema dell’aldilà: problema che con delicatezza ma senza remore anche ai figli e nipoti, soprattutto in questi giorni commemorativi dovremmo affacciare.

Io che ho avuto morto anche un figlio ventiduenne, iniziavo un mio Dialogo sull’aldilà dicendogli: «Sei e sei qui!».

Ma oltre il superficiale oblìo della morte, c’è anche la dovuta frequentazione dei cimiteri da parte di chi, magari anche in quello stesso giorno del due novembre, non mette piede in chiesa.

La morte è legata così strettamente alla vita che questa istintivamente non si rassegna a finire e sembra illudersi anche in una stagione secolarizzata come la nostra, cioè fidente solo sul vivente secolo, che il cadavere visitato oda le sue parole e veda le sue lacrime.

La grande poesia, come quella dei Sepolcri del Foscolo, ispira il senso divino dell’immortalità, anche se questa è affidata per i secolaristi come Foscolo all’arte a alla poesia, alla scienza e all’eroismo, ciò contro la «piatta ed egualitaria visione delle anime» della concezione cristiana. La quale, in realtà, non è tale: rovescia addirittura la graduatoria della distinzione dei morti, asserendo che i primi di qui saranno gli ultimi e viceversa. Dio ci scampi da essere primi nel senso mondano, e ci aiuti nello sforzo di considerare la scala del mondo diversamente ora che tutta la cultura invita all’opposto. A questo tipo di cultura oggi, e la stessa politica fa cultura, occorre opporci. Ma qual è allora il filo d’oro a cui attaccarsi dopo che avremo messo i ritratti dei nostri cari e di tutti coloro che in vita abbiamo amato, sullo scaffale di fronte alla nostra scrivania per averli sott’occhio ogni giorno a ricordo e protezione del nostro lavoro?

«Se siete, come siete, siete qui… o mio figlio, miei genitori e parenti, miei tanti amici scrittori e letterati di cui ho allineate le fototografie anche ritagliate dai giornali, uomini di Stato e politici che avete salvato e ricostruito l’Italia, siete qui, pregate e invocate per noi il Dio grande che la via della ricostruzione morale e materiale sia ripresa dopo questi giorni di appannamento…». Così scrivevo e ripeto in questa paginetta di diario intimo che sta divenendo questo articolo.

Non essendo un assiduo frquentatore di cimiteri – pur compiendo questa pia pratica almeno il due novembre– sono ricorso ormai da quindici anni (posso, debbo dirlo?) alla Eucarestia. Il Dio vicino intitolava il cardinale Ratzinger, oggi Benedetto XVI, uno dei suoi ultimi libri: «Il Dio vicino, l’Eucarestia, cuore della vita cristiana, cima della vita». Chi si unisce al Signore forma dunque con lui un solo Spirito, vale a dire un’unica esistenza che proviene dallo Spirito Santo. L’Eucarestia dunque come cima della vita che tutti morti e viventi riunisce e affratella, anime e corpi. Che altro di più nei giorni del lutto?

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