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Scuola, il disegno di legge un possibile punto di partenza

di Giuseppe SavagnoneQuesta volta sembra davvero fatta. La riforma della scuola, a lungo invocata, più volte tentata, in parte già avviata dal centro-sinistra – che aveva varato il nuovo regime dell’autonomia e approvato in linea di principio la parità scolastica –, finalmente è giunta al termine del suo travagliato iter con l’approvazione, in Parlamento, del disegno di legge delega del ministro Moratti. Ora toccherà all’esecutivo tradurre questo mandato, entro due anni, in una serie di scelte concrete che daranno la sua fisionomia definitiva al nostro sistema scolastico.

Dagli articoli del testo approvato, tuttavia, è già possibile dire qualcosa su ciò che resterà come prima e su ciò che cambierà. Il primo aspetto non è meno importante del secondo: un merito fondamentale della riforma sembra quello di aver resistito a quanti pressavano perché la nostra scuola si adeguasse indiscriminatamente ai cosiddetti standard europei, smantellando una tradizione culturale ed educativa di cui dovremmo andare fieri. Così, rimane fermo il principio che la scuola è volta non solo e non tanto a trasmettere competenze e abilità, ma anche e soprattutto ad assicurare ai giovani “il conseguimento di una formazione spirituale e morale anche ispirata ai princìpi della Costituzione”. Su questa linea, torna ad essere oggetto di valutazione, accanto al profitto, il comportamento degli alunni. Anche la durata del corso degli studi, che nel precedente piano di riforma era ridotta di un anno, resta invariata, anche se a costo di anticipare l’iscrizione alla scuola dell’infanzia a due anni e mezzo e alla primaria a cinque anni e mezzo.

Un’altra novità – sicuramente la più importante e la più contestata di questa riforma – è la creazione di un canale finalizzato alla formazione professionale, alternativo e di pari dignità culturale rispetto a quello liceale, con la possibilità, alla fine del primo ciclo, di scegliere tra i due. Di per sé, si tratta di un’innovazione che potrebbe liberare il nostro sistema educativo da un taglio esclusivamente libresco e a valorizzare la cultura del «fare», restituendola alla sua piena dignità. Tanto più che la corsa obbligata all’Università non costituisce affatto, per migliaia di giovani, una effettiva promozione, ma un «posteggio» umiliante, come dimostra la sproporzione tra il numero degli iscritti e quello dei laureati. Offrire un apposito percorso a tanti, portati a coniugare l’impegno conoscitivo con quello tecnico più che a studi puramente teorici, potrebbe significare offrire loro una migliore possibilità di realizzazione umana e rendere al tempo stesso più efficiente il sistema universitario.

Ma veramente il canale della formazione avrà, di fatto, uno spessore culturale e umano paragonabile a quello del liceo, o si rivelerà un ghetto dove andranno a finire i giovani più deboli sul piano sociale, come non si stanca di ripetere l’opposizione? Il dubbio è legittimo, non solo perché è già accaduto che, in materia di scuola, i fatti di questo governo non corrispondessero alle parole, ma anche perché la formazione professionale è di competenza delle regioni, e alcune di esse non sembrano in grado di far fronte adeguatamente a questo ambizioso progetto. Ciò non toglie, tuttavia, che esso, in sé, non sia scandaloso come lo definiscono i critici. Al di là delle interessate apologie e delle polemiche ideologiche, questo testo legislativo costituisce un possibile punto di partenza. Ora ci resta solo da attendere, fiduciosi, ma vigili, che almeno questa volta alle parole facciano seguito i fatti.