Toscana

Schulim, il fiorentino salvato da Schindler

DI MARCO GIORGETTI

Daniel Vogelmann (nella foto), figlio dell’unico italiano presente sulla famosa Schindler’s List, ci accoglie nella sua casa fiorentina e incrociando il nostro sguardo, rivolto verso una foto in bianco e nero che ritrae una bellissima bambina, mi dice: «Si chiamava Sissel, aveva otto anni quando varcò la soglia di Auschwitz, era la mia sorellina». Daniel Vogelmann mi guida in un viaggio a ritroso nel tempo, in anni e luoghi che, per fortuna, possiamo solo immaginare.

Quando è venuto a conoscenza della presenza di suo padre Schulim nella lista di Oskar Schindler?

«Poco dopo l’uscita del film, che risale al 1993; lui non condivise con me niente dei fatti che si apprendono dalla magnifica opera di Spielberg. Fu un mio amico a segnalarmi un documentario dove apparivano da vicino i fogli originali della Schindler’s List39.Ju.Ital.69l77 Vogelmann Szulim 28.4.O3 BuchdruckerMeister” (maestro tipografo). Questa è stata un’ulteriore conferma».

Di quale nazionalità è originaria la sua famiglia?

«Provenivano dalla Polonia, mio padre Schulim è nato vicino a Leopoli in Galizia nel 1903, durante la Grande Guerra fuggì con la famiglia a Vienna. Aveva 15 anni quando partì per andare in Palestina. Nachum, mio nonno, lo accompagnò alla stazione e lo salutò dicendogli:“Cosa vuoi che ti dica? Di mangiare con coltello e forchetta? Sii onesto!”. Non si videro mai più».

Come arrivò a Firenze?

«Dopo tre anni, trascorsi in quello che diverrà nel 1948 lo stato di Israele, rientrò in Italia. Mio padre era un ebreo osservante, era stato educato in una famiglia di ebrei ortodossi e suo fratello Mordechai era uno stimato rabbino che fu chiamato a Firenze a insegnare Talmud nel prestigioso Collegio Rabbinico. Mordechai chiamò quindi Schulim nel capoluogo fiorentino e gli procurò un lavoro che gli permettesse di rispettare la festività del sabato. Venne assunto con la mansione di compositore a mano dall’editore e libraio ebreo Samuel Olschki, proprietario anche della Tipografia Giuntina. Dopo qualche anno si sposò con Annetta Disegni, figlia del rabbino capo di Torino; dalla loro unione nel 1935 nacque Sissel».

Una giovane famiglia che muoveva i primi passi verso il futuro…

«E invece si stavano incamminando verso il periodo più tragico della nostra storia. I sogni ed i progetti, furono spazzati via nel 1938 con la promulgazione in Italia delle leggi razziali. Lei venne licenziata dalla sua cattedra d’insegnamento all’Istituto Duca D’Aosta, Sissel dovette lasciare l’asilo pubblico per quello ebraico. I tedeschi invasero l’Italia l’ 8 settembre del 1943. Mio padre, con Annetta e la piccola Sissel, tentò di fuggire verso la Svizzera, ma vicino a Sondrio vennero arrestati dalla milizia fascista. Riportati a Firenze, li collocarono in un campo di concentramento vicino Bagno a Ripoli (villa La Selva) e da lì, poco tempo dopo, furono trasferiti nel carcere milanese di S. Vittore».

E dopo cosa accadde?

«Il 30 gennaio del 1944, con altre 607 persone, vennero portati alla Stazione Centrale dove, al  tristemente noto “binario 21”, li attendeva un treno con destinazione Auschwitz. Il viaggio durò 7 giorni: arrivarono in 610, tornarono a casa in 20, tra questi mio padre. Annetta e Sissel non tornarono più. Lui riuscì a sopravvivere con molta probabilità grazie alla sua professione di tipografo che si rivelò molto utile per i nazisti; quest’ultimi volevano stampare documenti bancari, sterline e dollari falsi per mettere in grave crisi la Banca Centrale Inglese e Americana. Fu trasferito, per questo “lavoro particolare” a Plaszow ed è proprio nel campo di lavoro, del famigerato comandante Amon Goeth, che deve essere entrato in contatto con coloro che lavoravano per Oskar Schindler. Ricordandosi ancora qualcosa della lingua madre polacca riuscì a familiarizzare con gli altri prigionieri provenienti dal ghetto di Cracovia e farsi inserire nella “lista dei salvati”, che furono trasferiti nella fabbrica di Schindler a Brunnlitz (Brnener) passando per Gross Rosen. Fu liberato alla fine di aprile del 1945, tornò a casa a piedi e con mezzi di fortuna. Una volta arrivato a Firenze trovò solamente la sua Tipografia Giuntina. Successivamente la acquisì divenendone l’unico proprietario e riuscì a ricostruirsi una famiglia: si sposò con Albana Mondolfi vedova Passigli, madre di Guidobaldo, e nel 1948 nacqui io».

Ha condiviso con lei qualche ricordo di quei tragici anni?

«Pochissimo. Ricordo la sua visibile amarezza, quando mi raccontava dell’indifferenza e dell’incredulità manifestata dalle persone, quando tentava di raccontare cosa aveva vissuto. Credo che con grande amore paterno abbia voluto proteggermi dalla violenza e dall’orrore che certi ricordi tragici hanno il potere di emanare anche a distanza di tempo».

Auschwitz come ha influenzato la fede di una persona osservante come suo padre?

«In modo determinante. Noi non abbiamo “altro” che il Dio di Israele, l’Altissimo. Siamo stati educati a credere in un Dio descritto come l’Essere impronunciabile e innominabile, ma presente; misterioso e nascosto, ma vicino al suo popolo; forte e elargitore di giustizia, ma al nostro fianco. Questo Dio potente, il nostro “Dio degli eserciti” sembra aver fermato i propri passi alle soglie d’ingresso dei campi, dove invece è entrato il suo popolo. È difficile avere una grande ed incondizionata fede nel Dio di Israele dopo Auschwitz. Quando gli chiedevo se credesse ancora in Dio lui mi rispondeva: “Un essere superiore ci sarà…”».

Com’è nata l’idea della casa editrice?

«Negl’anni settanta iniziai a lavorare nella tipografia di famiglia; nel 1974 (lo stesso anno di Oskar Schindler) mio padre è mancato: per me è stato un colpo devastante. Ma proprio nel momento di maggiore sofferenza, iniziai a maturare la decisione di fondare una casa editrice, e nel 1980 il progetto ha preso forma».

La Giuntina, può considerarsi il suo modo per riappropriarsi della sua storia familiare?

«Certamente. Dal 1980 ad oggi abbiamo pubblicato circa 500 opere divise in cinque collane; i miei libri si rivolgono soprattutto ai non ebrei, affinché conoscano la cultura ebraica in tutte le sue forme. Il primo libro pubblicato, nella collana Schulin Vogelmann dedicata a mio padre, è stato La notte di Elie Wiesel, quando ancora era sconosciuto ai molti, appena qualche anno prima che gli conferissero il Nobel per la pace. La Giuntina fece uscire in Italia anche qualche opera di un certo… Abraham Yehoshua, quando non era assolutamente conosciuto in Italia. Siamo apprezzati a livello internazionale e tradotti in varie lingue, ma la cosa a cui teniamo di più è il rapporto diretto con i nostri lettori che manteniamo anche attraverso il nostro sito, www.giuntina.it».

Cosa pensa della visita di Benedetto XVI alla comunità ebraica di Roma?

«Sicuramente positiva. Spero in una maggiore fratellanza tra noi. Magari posticipare di qualche anno l’eventuale beatificazione di Pio XII poteva dare il tempo, aprendo gli archivi vaticani agli storici, per fare chiarezza sui silenzi del pontefice. Resta comunque indelebile nel nostro cuore, l’aiuto ricevuto dai conventi, che hanno salvato migliaia di ebrei, compresi mia madre e mio fratello».

Ha mai sentito il bisogno di andare ad Auschwitz?

«Ci sono andato qualche anno fa, dopo un lungo periodo di riflessione interiore; sono partito dal binario 16 di S.M. Novella, ed è inutile dire che le emozioni forti e i pensieri ti assalgono già mentre sei lì che attendi di treno. Una volta arrivati all’interno del campo il ricordo di Sissel mi ha rapito. Anche se la sua permanenza sappiamo essere stata breve, cercavo di immaginarla in quei terribili luoghi, con gli altri bambini o magari con sua madre. Spero solamente che non si sia mai sentita sola… Oggi, come ieri, la penso spessissimo. Avrei tante cose da dirle. Spero che un giorno potremo finalmente incontrarci: correrà verso di me sorridendo e mi dirà dolcemente: “Ah, tu sei Daniel”. Sentire il suo abbraccio sarà bellissimo… e sarà per sempre».