Opinioni & Commenti
Schiacciati dal debito e sempre meno «affidabili»
di Romanello Cantini
Bastano pochi dati per farsi una idea della crisi che il nostro paese sta attraversando e che deve affrontare. Il nostro debito pubblico è di 1.900 miliardi di euro. Cioè un venti per cento in più del nostro reddito nazionale. Pagare questo debito diventa sempre più costoso. Per paura di un eventuale fallimento dell’Italia, anche se ancora le nostre obbligazioni per pagare il debito pubblico si riesce a venderle, si comprano tuttavia solo se danno un interesse annuo di oltre il sei per cento. Al confronto le obbligazioni francesi sono vendute a poco più del 3 e quelle tedesche a poco meno del 2 per cento di interesse. La mancanza di fiducia nel nostro paese ha quindi un costo altissimo. In termini concreti solo il quattro per cento in più che separa il tasso di interesse italiano da quello tedesco (il famoso spread) ci fa pagare ogni anno settanta miliardi di interessi in più di quanto pagherebbe la Germania. E settanta miliardi sono una cifra superiore a quanto il nostro paese spende ogni anno per la pubblica istruzione. In totale paghiamo solo per interessi sul nostro debito ogni anno qualcosa come novanta miliardi che è un salasso che si avvicina alla spesa totale della nostra sanità che, come è noto, dopo quella della previdenza, è la seconda spesa del bilancio nazionale italiano. E poiché ogni anno il nostro reddito nazionale cresce meno dell’uno per cento, mentre cresce molto di più il debito e gli interessi che dobbiamo pagare, ogni anno che passa non diventiamo sempre più grandi, ma sempre più piccoli e più poveri.
Finora si è creduto che sarebbe stata l’Europa a salvare gli stati della zona euro in crisi come e più dell’Italia. Nel maggio dell’anno scorso è stato creato un fondo di stabilità di 440 miliardi per aiutare i paesi in affanno nel pagare i loro debiti. Di questo capitale di pronto soccorso nel maggio dell’anno scorso 78 miliardi sono stati dati al Portogallo. Poi nel novembre 85 miliardi sono stati dati all’Irlanda e nel luglio di quest’anno 109 miliardi sono stati dati alla Grecia. Queste iniezioni di liquidità hanno fatto sopravvivere le economie in peggiori condizioni, ma non hanno definitivamente guarito nessun malato. Anzi la Grecia può già in pratica considerasi in stato fallimentare visto che le banche europee sono state costrette a contentarsi di recuperare il cinquanta per cento i loro crediti ad Atene e i bond greci si vendono ormai sul marcato libero al quaranta per cento del loro valore come accadde anni fa con il fallimento dell’Argentina.
Di fatto la crisi dei paesi dell’Euro spinge in due direzioni opposte. Da un lato quella di rafforzare l’unione in direzione di una soluzione federale per coinvolgere le finanze di tutti nel salvataggio delle situazioni più disperate. Dall’altro quella che può indurre al disfacimento della zona euro con la fuoruscita dei paesi stanchi di sentirsi imporre elenchi sempre più lunghi di sacrifici da Bruxelles con l’applauso più o meno palese dei paesi più fortunati stanchi di pagare per i paesi più disgraziati. Nel primo caso dovrebbero essere i paesi che hanno più peso politico e salute economica ad assumersi il fardello principale di una ulteriore integrazione. Fra questi la Francia e soprattutto la Germania chiamata a pagare più di tutti per la sua dimensione politica e per la sua solidità economica. Ma quest’ultima, che rinunziò a fatica al proprio solido marco per la paura di una moneta rovinata dagli altri, non vuole essere la cassa perpetua di un Mezzogiorno europeo che va dal Portogallo alla Grecia passando per la Spagna e l’Italia. E concepisce anche la funzione della Banca Centrale Europea come un organismo che deve tenere d’occhio l’inflazione più che prestare a chi è in difficoltà. D’altra parte affidare alla Banca Centrale Europea il compito di risanare le finanze degli stati, come in passato ha fatto il Fondo Monetario Internazionale per il Terzo Mondo, pone insormontabili problemi di democrazia.
Probabilmente anche la famosa lettera della BCE del 5 agosto scorso a cui l’Italia sta cercando di obbedire, senza per la verità molto riuscirci, avrebbe avuto un’altra sensibilità sociale se fosse stata redatta da un organo che sa di dover rispondere ai propri cittadini. La BCE non ha molta voglia di aiutare gli stati e quando lo fa lo fa consegnando, insieme ai soldi, tavole della legge. Come se questo ruolo politico della Banca Europea non bastasse ora anche il Fondo Monetario Internazionale si fa concedere il diritto di correggere ogni tre mesi i compiti dell’Italia. Ormai gli stati indebitati vanno in banca a chiedere come devono fare il loro bilancio nazionale, così come il capo famiglia con il mutuo ci va a farsi dire come deve riorganizzare il proprio bilancio familiare.
È chiaro quindi che, in una crisi eccezionale come questa, alla fine conterà il senso di responsabilità altrettanto eccezionale che ogni paese riuscirà a dimostrare al suo interno sacrificando all’interesse generale non solo gli interessi personali, ma anche gli interessi di partito. È opinione comune che in una partita come questa in cui tanto si gioca sulla fiducia di chi governa sono importanti anche i cambi della guardia di chi bene o male si identifica con la crisi con cui ha convissuto senza riuscire superarla. Non lo dicono solo le opposizioni perché fanno il loro mestiere e i giornali stranieri perché possono avere le loro simpatie e antipatie. Non lo dicono solo le tante manovre inutili che l’Italia, più di un camion, ha fatto dal luglio scorso ad oggi. Lo hanno detto con l’esempio personaggi come Zapatero in Spagna e Papandreou in Grecia che hanno creduto al ricambio anche se lo pagavano di persona andandosene e spegnendo la luce. Soprattutto in una emergenza come questa è miserevole guardare agli interessi elettorali di partito presentandosi sia come le guardie svizzere dei pensionati sia come coloro che le tasse le fanno pagare solo agli altri. C’è a questo proposito una frase molto significativa di De Gasperi che non a caso è stata ricordata in questi giorni: «Il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista guarda alle prossime generazioni»