La pubblicazione del testamento di Giovanni Paolo II ha forse deluso quanti si aspettavano un documento organico e compiuto. Si tratta, infatti, di pagine stese frammentariamente, a più riprese nel corso degli anni, con un procedimento che abbiamo già spesso trovato nei testi dottrinali di questo Papa e che potremmo definire, in contrapposizione alla forma lineare imposta nell’Europa occidentale dalla tradizione cartesiana , di tipo spiraliforme. C’è un nucleo in questo caso il documento originario, risalente al 1979 intorno a cui si vengono accumulando, per successivi accrescimenti, altre riflessioni, in un arco di tempo più che ventennale. Risalta, in questo nucleo iniziale, il senso che Karol Wojtyla ha sempre avuto della propria morte. A un’età ancora relativamente giovanile non aveva superato di molto i cinquant’anni e a pochi mesi dalla sua elezione, questo Pontefice si preparava già, con grande serietà e pietà, a quella che egli definisce «l’ultima chiamata» da parte del suo Signore: «Desidero seguirLo e desidero che tutto ciò che fa parte della mia vita terrena mi prepari a questo momento». E del resto, come scriverà l’anno seguente, «ognuno deve tener presente la prospettiva della morte». «Spero», aggiungeva, «che il Cristo mi dia la grazia per l’ultimo passaggio, cioè la [mia] Pasqua». Ora sappiamo con quale spirito questo Papa abbia vissuto la sua difficile missione, le sue battaglie, i suoi viaggi, i bagni di folla che tanto spesso ne hanno accolto la visita nei più disparati paesi del mondo. Dietro l’immagine di un’energia immensa, di una volontà straordinariamente tenace, di un protagonismo che ad alcuni è potuto sembrare perfino invadente, c’erano, fin dall’inizio, una costante preparazione alla morte e un totale abbandono nelle mani di Dio, attraverso la mediazione di quelle di Maria: «Anche questo momento depongo nelle mani della Madre del mio Maestro: Totus tuus». C’era anche un grande spirito di povertà: «Non lascio dietro di me alcuna proprietà di cui mi sia necessario disporre». Della propria stessa vita sapeva di non poter esser più padrone e che considerava come un dono sempre rinnovato. Molti anni dopo, nel 2000, chiedendosi se non fosse ormai «il tempo di ripetere con il biblico Simeone Nunc dimittis», Giovanni Paolo II riandava indietro nel tempo, a quel 13 maggio 1981, in cui la sua esistenza era stata miracolosamente preservata. «Colui che è unico Signore della vita e della morte, lui stesso mi ha prolungato questa vita, in un certo modo me l’ha donata di nuovo». Non si sentiva padrone della sua vita. Meno che meno, della sua altissima carica che, molto prima che cominciassero le polemiche circa le sue possibili dimissioni, egli rimetteva nelle mani di Dio: «Spero che Egli mi aiuterà a riconoscere fino a quando devo continuare questo servizio, al quale mi ha chiamato». Nel testamento del 1979 c’è un altro elemento che colpisce: la richiesta di perdono: «A tutti chiedo perdono». Giovanni Paolo II è stato il primo Pontefice che ha chiesto perdono, a nome della Chiesa, a tutti coloro che essa aveva perseguitato e ferito nel corso dei secoli. A giudicare dalle sotterranee perplessità e dalle rispettose riserve che la sua scelta ha suscitato negli ambienti della Curia romana, c’è da sospettare che sarà anche l’ultimo. Ma è certo che ha avuto il coraggio di farlo. Oggi sappiamo che questa richiesta si radicava in un atteggiamento più profondo e personale, che spingeva il Papa, all’indomani della sua elezione, a scrivere un testamento in cui chiedeva perdono a tutti. Richiesta di perdono e gratitudine: i due atteggiamenti appaiono strettamente connessi. Nel testamento del 1979 si trova scritto: «Ringrazio tutti». E nell’ultima annotazione, più di vent’anni dopo: «A tutti voglio dire una sola cosa: Dio vi ricompensi». È la nostra stessa preghiera per lui: ora che ha lasciato questa terra, non abbiamo altro da chiedere se non che Dio lo ricompensi di quel che ha fatto e soprattutto di quel che è stato per noi.