Cultura & Società

Santiago, in pellegrinaggio con l’amico ateo

di Franco Cardini

Burgos, piena Castiglia, lunedì 5 maggio 2008, davanti alla cattedrale sacra alle memorie del Cid Campeador. Sono a casa mia: adoro la Spagna, ci vado quasi tutti gli anni fin da quando ci capitai quattrodicenne nel ’54, ho fatto chissà quante volte il Camino de Santiago, la «Via Lattea», dai Pirenei alla Galizia (anche se una volta sola completamente a piedi, nell’ormai lontanissimo 1960). È qui che debbo affrontare la Bestia Atea, del quale me ne hanno dette di tutti i colori.

Piergiorgio Odifreddi mi attende a piè fermo, sul sagrato della cattedrale. Ha duellato da Roncisvalle a qui, più o meno quattrocento chilometri in una quindicina di giorni  con la Belva Cattolica, il  mio vecchio amico Sergio Valzania direttore di RadioRai, studioso d’istituzioni militari europee e di mass media. Ora gli tocca condividere circa dieci giorni e duecentocinquanta chilometri col cattolico fiorentino, suo collega d’Università – anche se di altro Ateneo e di differente Facoltà –, fino a León; poi tornerà Valzania, io rientrerò in Italia ed essi continueranno a camminare a piedi di giorno, a mangiar prosciutto di patanegra e bere sangrìa la sera, a litigare di continuo su tutto quel che riguarda Dio, il mondo, la storia. La ragione della staffetta tra me e Valzania è semplice: siamo entrambi obbligati a non assentarci troppo dal nostro lavoro, mentre Odifreddi non è solo ateo, è anche pensionato (nonostante sia più giovane di me).

Mi piacerebbe continuare così, col piglio del cronista, e raccontarvi tutto: ma non ho abbastanza spazio. Debbo abbandonare il presente storico e sintetizzare in poche battute un’esperienza ricca di fascino e di sorprese, che mi ha profondamente segnato. Non ci siamo convertiti, né lui al cattolicesimo, né io all’ateismo scientista. Del resto, nessuno di noi due non solo non si faceva illusioni, ma  nemmeno nutriva intenzioni missionarie nei confronti del compagno di viaggio. Su di noi, fin dalle prime battute, è aleggiata la grande ombra di Don Luis Buñuel e del suo straordinario film, La Via lattea. Eravamo lì per duellare, ma sapevamo che non ci sarebbero stati propriamente né vincitori, né vinti. Non era questo lo spirito della sfida. Si era portato dietro, come libro di meditazione per il viaggio, L’origine della specie di Darwin. Valzania ed io, Il senso tragico della vita di de Unamuno. Odifreddi aveva scelto di meditare sui primati; noi, su don Chisciotte. Significa molto: soprattutto in Spagna.

Un confronto di opposte testimonianze, insomma. Calzoni corti e scarponcelli da trekking, attorniato dai ragazzi e dalle ragazze (bravissimi, tutti) del team Rai incaricato di gestire le trasmissioni de Il Cammino, Odifreddi ha deciso fin dal primissimo approccio di mirar basso e di tirar a far male. Il suo saluto è stata una massima del suo amato e da me detestato Denis Diderot: «È molto importante il saper distinguere da cicuta dal prezzemolo, ma non lo è per nulla il credere o il non credere in Dio». Bella bordata d’artiglieria atea: tratta dalla Lettre sur les aveugles à l’usage de ceaux qui voyent, del 1749. Con reazionario sogghigno, ho replicato che quella battutaccia vecchia di più di due secoli e mezzo era costata al suo autore, grazie a Dio, un bel po’ di carcere nel torrione del castello di Vincennes: e che comunque, se è in effetti utilissimo distinguere la cicuta dal prezzemolo che tanto le somiglia (provare per credere: ne sa qualcosa il povero buon Socrate), il credere o il non credere in Dio serve moltissimo a stabilire se sia o meno legittimo bere o far bere la cicuta;  ed eventualmente a chi e perché fargliela bere, che poi è la cosa fondamentale.

Sono cominciati così dieci giorni divertenti, faticosi ma piacevoli, scanditi da un lungo discorso tra semisordi che alla fine però cominciavano a capirsi. Sulle prime, viaggiavamo su rotte estranee e parallele: lui con le sue ragioni scientifiche, io con i miei argomenti teologici. Per lo scienziato ateo la teologia è vana; per lo studioso cattolico la scienza è sempre insicura e difatti muta di continuo le sue «ragioni», e comunque senza il lumen Christi è vuota. Odifreddi è mariuolo, come direbbero a Napoli: ma è fino. Ha capito subito che Valzania è un cattolico mistico e sentimentale, Cardini un cattolico teologico e collerico: forse non razionalista e nemmeno troppo ragionevole, ma razionale sì. Per quel po’ di tecnica hassidica e/o zen (si somigliano), appresa dall’ebraismo e dal buddhismo e che entrambi mastichiamo un po’, il nostro discorso si è dispiegato sovente sul filo del paradosso. La realtà storica di Gesù è scarsamente provata e in fondo indimostrabile, attacca lui, ben sapendo di toccar un punto debole rinfacciando questo a uno storico; e chissenefrega?, gli rispondo io (touché: da un cattolico di ferro, questa non se l’aspettava), la fede non è faccenda di prove storiche e razionali, altrimenti basterebbe la ragione per arrivare alla Verità (è quel che pensano gli gnostici: e qualunque scienziato è per sua natura sempre un po’ gnostico), mentre a noialtri credenti l’esistenza storica del Cristo qui passus est sub Pontio Pilato, mortuus et sepultus est, et resurrexit tertia die non è affatto garantita dai documenti storici o dalle prove archeologiche, ma da qualcosa che per noi è ben più preziosa, la Fede. Che Gesù sia con certezza storicamente vissuto non ce l’ha dimostrato von Ranke: ce l’ha comunicato lo Spirito Santo attraverso i Padri del Concilio di Nicea. «Tu non credi nel Cristo – mi ha obiettato lui –: credi nella Chiesa». Confesso di essere stato tentato di rispondergli paradossalmente ch’era proprio così; ma era una tentazione, che ho respinto. Gli ho replicato, meno provocatoriamente, che per un cattolico tale problema non si pone. Mi è parso però di capire che la prima risposta lo avrebbe in realtà colpito più duro.

Una decina di giorni di questo passo, fra scienza e teologia, potrebbero sembrare sfibranti. Non lo sono stati perché c’erano nel mezzo tante cose: il sole e la pioggia del cammino, i muscoli delle gambe che bruciavano alla sera (specie a me che ho una mezza sciatica), gli scherzi e le risate, la buona tavola e i momenti di commozione, quando s’incontravano un pellegrino o una pellegrina la cui esperienza appariva particolarmente intensa. Il cattolico e l’ateo hanno ovviamente parlato di politica, constatando con reciproca, soddisfatta sorpresa la coincidenza di molti giudizi. E si sono dovuti confrontare con un fenomeno per certi versi banale e prevedibile, per altri sconvolgente e allarmante: la metamorfosi postmoderna del Camino, il suo trasformarsi in un’esperienza new age nella quale il cristianesimo sembra arretrare mentre monta l’ondata esoteristico-ecologistico-vitalistica, sul modello del purtroppo diffuso libro di Paulo Coelho, un velenoso specchietto per inesperte allodole, un banale escamotage pseudospiritualista che ha accalappiato molti agnostici e inquinato la fede fragile di troppi credenti impreparati. Questo mi dicevano anche vicino a Fromista, nell’antico ospizio per pellegrini che la Confraternita Compostellana di Perugia, della quale sono membro, ha restaurato e gestisce vivendo di volontà e di precariato. Lì, in quanto confratello, ho vestito l’abito rituale ornato dalle vieiras, le conchiglie atlantiche simbolo del pellegrinaggio galiziano, e ho lavato i piedi agli altri pellegrini, secondo l’antico rito. Odifreddi non si fidava e ha rifiutato di sottoporsi alla cerimonia: mi guardava non malevolo, però ironico, chiedendosi se era davvero fede, e davvero umiltà, oppure solo un gioco da vecchio bambino, quello dell’anziano professore occasionalmente travestito da pellegrino medievale che s’inginocchiava dinanzi ai compagni di viaggio versando acqua e asciugando devotamente. Se me l’avesse chiesto, non gli avrei saputo rispondere: gli avrei solo replicato che questo è il rito, questa la tradizione, e che la verità insita nel significato del rito va sempre al di là delle intenzioni di chi lo officia. Non è forse così, mutatis mutandis, anche negli esperimenti scientifici?

Un punto di contatto e di confronto, peraltro, lo abbiamo trovato – politica a parte – negli edifici sacri, nelle cattedrali e nei santuari. Il linguaggio dell’architettura  romanica e gotica è rigorosamente matematico per un verso, non meno rigorosamente simbolico per un altro. Riflettere sul disegno di un rosone e sull’armonia di una struttura architettonica scambiandosi informazioni tratte dai rispettivi campi specialistici d’indagine è stata un’esperienza straordinariamente arricchente per me, ma credo non inutile nemmeno per lui.

Al centro della facciata della cattedrale di Burgos, c’è un prezioso rosone di pietra; al centro di esso una stella a sei punte, quella di solito chiamata «stella di David», simbolo caro agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani. Grazie a Odifreddi, ho imparato a leggerlo anche geometricamente, come «esagono stellato», e a considerarlo sotto il profilo delle sue proporzioni. E Oddrifreddi ha imparato dalla simbolica e dalla teologia cristiane che quel simbolo, costituito dall’intreccio di due triangoli equilateri, rinvia alla Trinità della sostanza divina affermata due volte, secondo la duplice natura del Cristo: il triangolo dal vertice rivolto verso l’alto richiama la natura divina del Figlio, quello verso il basso la natura umana. Che la stella di David sia, per i cristiani, un  simbolo del Cristo figlio di David, la dice lunga su tante cose: anche su duemila anni di storia, e in modo speciale su quella del Novecento.

Tornati entrambi in Italia, vedo che l’amico Piergiorgio ha ripreso sui mass media la sua attività di mangiaprteti e di tritacristiani. Decisamente, non si può lasciarlo un momento solo. Di recente, gli hanno proposto un audace e – nelle intenzioni – irriverente «gioco della torre». Chi butterebbe giù più volentieri da una torre ideale, Agostino o Tommaso, padre Pio o madre Teresa. Quando lo incontrerò di nuovo, glielo riproporrò per i suoi interlocutori della «Via Lattea»: chi spingere per primo nel vuoto, il mistico Valzania o il teologo Cardini? Chi è più pericoloso, per la atee certezze dello scienziato?