Dossier

Santiago, il «Camino» esperienza religiosa unica

di Giacomo StinghiParroco a Firenze e presidente del Centro di solidarietà fiorentinoHo fatto per tre volte il Camino di Santiago. Avevo 59, 60, 63 anni. Nel 1999 tornai da quelle parti per accompagnare 140 giovani, seminaristi e preti che, col card. Piovanelli, si recarono a Compostella, ma in pullman; a piedi facemmo appena 63 chilometri, nulla rispetto ai 780 dell’intero percorso, ancora meno degli 856 del mio terzo pellegrinaggio da Roncisvalle a Capo Finisterre.

Dei tre pellegrinaggi più antichi della cristianità, il «Camino» è l’unico ancora effettuato prevalentemente a piedi. Negli 11 secoli della sua storia ha visto milioni di persone percorrere lo stesso esile sentiero sotto la Via Lattea, seguendo il cammino del sole. Perché? Verso cosa? Verso chi? Domande alle quali ogni pellegrino dà una risposta diversa. Molti mi chiedono anche perché questa esperienza, comprensibile in un giovane, io l’ho fatta proprio alle soglie della vecchiaia e per tre volte. Domanda legittima, un motivo c’è.

Si può camminare per diversi motivi: come turisti, curiosando qua e là, o come viaggiatori, per conoscere e incontrare, o come pellegrini, alla ricerca del dopo, del senso dell’umana avventura. Gli spagnoli dicono che si va a Santiago per pregare, chiedere, espiare. Io questi motivi li avevo tutt’e tre, e anche qualche altro.Molti pellegrini scrivono un diario. In genere si tratta di un colloquio con se stessi, intimo e riservato. Ogni tanto sfoglio i miei tre quaderni, scritti nei momenti più diversi, spesso in posizioni scomode, come dice la grafia che risente della stanchezza o del sonno. Documento da non far leggere a nessuno tanto è personale, per me sempre fonte di commozione e di non poco rimpianto. I miei tre pellegrinaggiLa prima volta fu come un voto e una scommessa con me stesso. Partii senza sapere cosa mi aspettava, non sicuro di arrivare in fondo. Volevo staccare la spina di una vita senza respiro e tutta programmata che il mio lavoro mi imponeva da anni. Avevo necessità di un periodo di solitudine per riflettere e dirmi dove andava la mia vita e il Centro di Solidarietà di Firenze.

Mi accompagnavano l’entusiasmo e la paura del pioniere. Dentro di me prevaleva il senso dell’ignoto: di quello che mi aspettava non sapevo quasi nulla. Non mi aiutava l’aver letto che nel passato chi partiva faceva testamento, e che lungo l’antica strada avrei trovato molti cimiteri per i pellegrini. All’inizio mi sentivo sperduto in un paese sconosciuto, la lingua appena appena, come cavarsela tutto da provare. Allora il percorso non era attrezzato come oggi: a volte i rifornimenti alimentari erano problematici, ho dovuto dormire anche per terra, la salute dei piedi era un interrogativo ogni giorno.

L’antica benedizione che la sera di mercoledì 2 giugno 1993 l’abate di Roncisvalle impartì a un tedesco, un austriaco, due spagnoli ed a me non era proprio rassicurante: «O Dio, accompagnalo lungo il cammino, guidalo nei crocevia, difendilo dai pericoli. Dai a lui forza nella stanchezza, riparo lungo la via, ombra nella calura, luce nell’oscurità, conforto nello scoraggiamento, fermezza alle sue intenzioni, affinché, con la tua guida, possa giungere indenne al termine del suo viaggio e, arricchito di grazia e virtù, possa fare un sicuro ritorno alla sua casa, che ora soffre la sua assenza, pieno di gioia salutare e duratura».Poi, giorno dopo giorno, quella tensione si dipanò tra disagi e gratificazioni, incontri e tante ore di amata solitudine, riflessioni, preghiere, per concludersi il 29 giugno con un lungo momento fortemente emotivo sotto il «Portico della Gloria» di Santiago, davanti alle immagini dell’Apostolo e del Cristo, esperienza che non è possibile raccontare.

L’anno dopo volli ripetere il pellegrinaggio per soffermarmi più a lungo nei tanti luoghi carichi di storia e d’arte che avevo attraversato in fretta. Questa volta la riflessione religiosa fu incentrata sul mio modo di pregare. Per motivi di tempo, qualche tappa la feci in autobus. Fu un peccato grave per un pellegrino che si rispetti: intravedere, ogni tanto, da dentro un pullman ad aria condizionata, i pellegrini affaticati sotto gli zaini, arrostiti dal sole della Castiglia o annaffiati senza pietà dalle auto in corsa sotto la pioggia sono immagini che ti rodono dentro. E così, dopo tre anni, per lavare quella vergogna, feci il mio terzo pellegrinaggio, questa volta interamente a piedi, senza sconti e fino a Capo Finisterre. Non per caso, il tema del mio andare fu il mio rapporto con la morte, che gli anni mi ricordavano si stava avvicinando.

Un cammino dentro te stessoAll’inizio trovarsi lontano dal rumore, dalla gente, dai problemi di tutti i giorni, da una vita dominata da appuntamenti, orologio, macchina, l’inoltrarsi in una natura sconfinata e generosa come poche altre fu per me bello e riposante. Visitare mille paesini e storiche città, incontrare gente da tutto il mondo, misurarmi col mio fisico e con prove insolite fu un altro regalo di quella insolita esperienza. Positiva fu pure la scoperta che si vive bene anche solo con la decina di chili che entrano in uno zaino, senza le troppe cose che appesantiscono la nostra vita ogni giorno.

Ma ben presto mi trovai in quello che l’esperienza religiosa ebraico-cristiana chiama «il deserto»: una situazione fisica e interiore in cui sei costretto a guardarti dentro in profondità ed a porti senza scampo gli interrogativi fondamentali della vita. E tutto questo non in poche ore ma per un lungo interminabile mese.

Molti si meravigliano dei tanti chilometri che ho percorso a piedi, con uno zaino sulle spalle. Non è quello il vero problema; pian piano i chilometri li fanno tutti: ho incontrato anche pellegrini ultraottantenni. L’impresa più ardua per me è stata camminare ogni giorno da solo: un lungo pellegrinaggio all’interno di me stesso, per fare il punto della navigazione, per chiedermi dove vado, per un confronto serio con quell’interlocutore interiore che qualcuno chiama Coscienza, altri «El de arriba», come dicono da quelle parti: «Quello lassù». Per 268 lunghe ore di cammino effettivo sono stato solo con me stesso, ho pensato, ricordato, meditato, gioito, sofferto, cantato, pregato. Un vero, lungo rifornimento per lo spirito, oasi nel deserto di un anno nel quale, se non vigilo, rischio di vivere solo in superficie e di inaridirmi come sughero. Lo scendere dentro di sé è un percorso più scomodo di quello che si fa con le gambe. Per questo il silenzio e l’inattività fisica fanno tanta paura a molti che preferiscono il rumore e il lavoro.

Trangugiare o centellinare?Nei miei pellegrinaggi ho fatto un’altra esperienza positiva, anche se subito dimenticata appena tornato a Firenze. Camminando attraverso i panorami sconfinati della Navarra, tra i vigneti della Rioja, negli interminabili altipiani della Castiglia, nelle campagne ancora medievali della Galizia ero costretto a parlare con la gente che salutava o offriva qualcosa, ma anche a comunicare con i piccoli animaletti del sentiero, con cani, pecore e mucche, con le allodole ubriache di sole che trillavano alte nel cielo, con i piccoli fiori e gli sterminati campi di grano, di papaveri, di soia, tappeti immensi dai colori più vivaci e diversi: tutti interlocutori con qualcosa da dirmi. Tutto questo, se vai di fretta, non lo noti e così lo perdi. «La fretta l’onestade di ogni atto dismaga», ha scritto Dante. La vita è come un buon bicchiere di vino, m’insegnò un mio fratello: va centellinata, non trangugiata. L’incontro con «El de arriba»Per ogni pellegrino il momento culminante è nella cattedrale di Santiago, davanti al Portico della Gloria, uno dei più grandi capolavori dell’arte romanica. Per ore, davanti al miracolo delle sculture di Maestro Matteo, a San Giacomo, al Cristo glorioso, ai santi, ebbi un intenso, conclusivo colloquio interiore con «El de arriba» che da solo giustificò abbondantemente la fatica di quel mese. Per tutti quei giorni mi ero chiesto perché mai mi avesse portato così lontano, che cosa voleva dirmi. In quelle ore lo seppi. Ma fu un’esperienza interiore profonda che non è possibile descrivere: il Camino lo comprende solo chi lo fa. Agli altri si possono riferire solo alcuni dettagli, ma resta sempre in bocca la sensazione amara aver detto poco e male, sciupando un’esperienza personale unica nella vita. I fatti di sangue accaduti l’11 di marzo in terra di Spagna mi mettono la voglia di ripartire per Santiago. Questa volta sarebbe per espiare il dramma dello scontro tra culture e religioni e per chiedere il dono della pace non solo per il mio spirito ma per questo nostro mondo. E’ una consegna che affido a quanti vorranno regalarsi questa avventura sulla strada, sempre più affollata, per Santiago. Con l’appello, anche alla Chiesa italiana, di valorizzare ed attrezzare la Via Francigena che permetterebbe, specie a tanti giovani, di arrivare a Roma non da viaggiatori o turisti ma da pellegrini dell’Assoluto. «Anche molti che lo iniziano per interessi culturali alla fine si incontrano con Quello-lassù», mi dissero molti in Spagna. La testimonianzaIo, laico, alla ricerca della salvezzaSono un laico che ama andare a piedi. Non per sport. Ma come bisogno esistenziale, spirituale. Ho fatto il Camino, a piedi, da solo nel 2000, dal 18 aprile al 18 maggio. Da Pamplona a Santiago. Da laico volevo vivere, confrontarmi a una millenaria esperienza cristiana. Ripercorrere i passi dei pellegrini che dall’VIII secolo si sono mossi verso la tomba dell’apostolo Giacomo. Per devozione o espiazione. Uomini spinti da una fede su un cammino arduo, allora sconosciuto, per una meta di salvezza. Pur se non dalla stessa fede anch’io ero spinto da motivazioni interiori. Approssimandosi i sessantanni di età volevo riflettere sulla vita e me stesso, regolare dei conti con la mia coscienza.

Ho pensato a lungo al Camino. Ho letto molto prima di muovere i passi. Mi sono preparato con cura, soprattutto nella scelta delle cose da portare sulle spalle, per camminare agevolmente, senza sfidare i miei limiti fisici. Certo, il Camino è una impegnativa prova con se stessi, ma volevo prevalesse lo spirito del pellegrinaggio non quello di un trekking in montagna. Sono così partito da Pamplona con uno zaino leggero, una bibbia tascabile, un libretto per scrivere e disegnare, la guida del percorso, un bastone. Non ringrazierò mai abbastanza don Giacomo Stinghi per avermi istruito ed essermi stato vicino nel mio andare.

Ho camminato in media 24 chilometri al giorno, stendendo la sera il sacco a pelo in uno dei tanti rifiugi per i pellegrini presenti sul percorso. Mi è capitato di arrivare talvolta tardi, la sera, dopo una tappa segnata da avversità, per il maltempo o per aver smarrito la «flecha amarilla», finendo fuori strada. E non sono mancate difficoltà. Una caviglia infiammata mi ha a lungo tormentato. Ma ogni mattino uscivo dal rifugio con l’entusiasmante attesa di ciò che il Camino aveva in serbo per me e la sera vi entravo, pur spossato dalla fatica, con la felicità per ciò che il Camino mi aveva donato.

«Il pellegrino non chiede ma ringrazia», dice un adagio. Non è solo un insegnamento all’umiltà. Sul Camino ho provato forte la sensazione che tutto ciò che vivevo fosse uno straordinario dono. Un dono in cui altrettanto forte si faceva sentire la presenza del sacro. Sì, del sacro. Avete letto bene. Sono un laico che riconosce e rispetta il sacro della vita e delle cose, che lascia aperta la porta al mistero, al miracolo. Con l’andare a piedi si ampliano le nostre capacità percettive, fisiche, mentali. Ma sul Camino scattano anche percezioni diverse, di qualcosa che supera la terrestrità, la nostra dimensione razionale.

Ricordo che dimenticai sul letto del rifugio di Castrojeriz un minuscolo dizionario di spagnolo che mi aiutava nei rapporti con le persone. Me ne rammaricai molto. Ma giorni dopo, fra la pioggia che andava e veniva, vidi sul sentiero un librettino, bagnato sull’esterno, ma sempre utilizzabile. Non ci crederete: era un altro dizionarietto! Semplice caso? O altro? Qui si pone il problema del senso che diamo a quanto la vita ci offre, i significati che attribuiamo ai segni che toccano la nostra sensibilità. Il Camino è una bella avventura dello spirito, che arricchisce il senso della vita e della cose. Non mi ha sorpreso ritrovare nei diari dei pellegrini del passato sentimenti e pensieri dettati dai miei passi. Anche un laico deve cercare la salvezza. Non solo nella bontà delle opere, nell’impegno politico e civile, ma anche nel perseguire «virtute e conoscenza». Quel perfezionamento morale e spirituale che è indispensabile per accrescere la nostra umanità, la capacità di amare gli altri e la vita. Grazie Camino, Grazie San Giacomo!Antonio Caminati La schedaLa visione di PelayoCorreva l’anno 813. Nella remota Galizia, un pastore eremita di nome Pelayo (talvolta italianizzato in Pelagio) vide una notte una sorta di pioggia di luci, simili a stelle, in un campo vicino al suo romitaggio. Pelayo avvertì quindi il vescovo di Iria Flavia, Teodomiro, che dispose di scavare in quel luogo, secondo quanto era stato indicato allo stesso pastore in sogno. Apparve così una piccola arca marmorea nella quale erano i resti di un uomo decapitato, subito riconosciuti come le reliquie di Giacomo di Zebedeo, ossia San Giacomo il Maggiore, allora conosciuto in Spagna come Sant Yago. Nella sua testimonianza di Cristo, si era spinto fino alla fine del mondo allora conosciuto (finis terrae), per poi tornare in Palestina dove subì il martirio. Secondo la tradizione, i suoi discepoli ne ricondussero però le spoglie in Galizia, per inumarle nel luogo della sua predicazione. Nei secoli successivi la tomba venne però dimenticata. Intanto gli arabi, all’inizio dell’VIII secolo, invasero la penisola iberica conquistandola quasi completamente. San Giacomo e gli arabiPer ciò che restava della Spagna Cristiana, il ritrovamento del corpo dell’Apostolo nel luogo in cui sarebbe poi sorta Santiago de Compostela (italianizzato in Compostella, da «campus stellae» – con allusione alla visione di Pelayo – o forse da «compostum tellus», terreno sepolcrale) fu un evento davvero prodigioso. Alfonso II El Casto, re delle Asturie e di Galizia, informò del ritrovamento Papa Leone III e l’imperatore Carlo Magno, che sarebbe morto nel gennaio successivo. La tomba del santo divenne presto un simbolo di una possibile, nuova unità e nel suo nome iniziò la lunga fase della «Reconquista» della penisola con la cacciata degli arabi. Si dice addirittura che San Giacomo sia apparso, in alcune battaglie, alla testa delle armate cristiane, e fu per questo chiamato con il nome di «Santiago matamoros», ossia l’uccisore dei mori, che però avevano a suo tempo dimostrato di rispettarne sia la memoria che le spoglie. L’indizione del GiubileoNon ci volle molto perché Santiago de Compostela acquisisse grande importanza per l’intero mondo cristiano. Già verso la metà del secolo i vescovi di Iria Flavia vi trasferirono la loro sede. Le chiese si dimostrarono via via insufficienti ad accogliere la moltitudine di pellegrini, finché a partire dal 1075 non venne posto mano all’attuale cattedrale, completata nel 1188 con lo stupendo «Portico della Gloria» del Maestro Matteo. Nel 1124 una bolla di Papa Callisto II stabilì che ogni anno in cui la festa del santo fosse caduta di domenica sarebbe stato da considerare come Anno Giubilare Compostellano, con le relative indulgenze: una grazia che poi sarebbe stata confermata da Alessandro III nel 1179, mentre per il primo Giubileo romano occorrerà attendere il 1300. Il cammino delle stelleSantiago divenne quindi la terza importante meta di pellegrinaggio della cristianità, assieme a Roma e a Gerusalemme, e in direzione della Galizia si svilupparono diversi itinerari, tuttora ben individuabili, tanto che in Spagna, parafrasando il proverbio italiano, si può dire che «todos los caminos conducen a Santiago». La via da sempre più seguita e attrezzata, almeno per chi giungeva dal resto d’Europa, è il cosiddetto «Camino francés», ossia il cammino francese, indicato pure con i nomi di «Cammino delle Stelle» o «Via Lattea». Se è vero che, in tutti questi secoli, la pratica del pellegrinaggio non è stata mai abbandonata – pur con una forte flessione tra il XVII e il XIX secolo – è anche da sottolineare la grande riscoperta di questi ultimi anni, frutto, fra l’altro, di un’intelligente opera di rivalorizzazione che ha portato alla segnalazione dell’itinerario con il simbolo della conchiglia di San Giacomo (la nostra capasanta) e con frecce gialle («flechas amarillas», in spagnolo), nonché all’apertura di molti nuovi posti tappa, che consentono di spezzare più agevolmente il percorso a seconda delle proprie esigenze. Dalla località francese di Saint Jean Pied de Port attraverso il valico di Roncisvalle – dove trovò la morte il paladino Orlando – o dal più orientale Passo del Somport, le due varianti alternative iniziali (rispettivamente, «Camino navarro» e «Camino aragonés») scendono ad unificarsi a Puente la Reina per poi proseguire verso Santiago attraverso Burgos e León. I chilometri da percorrere sono circa 800, le tappe una trentina, ma i più allenati possono ridurne il numero. C’è anche chi preferisce la bici o addirittura il cavallo, con tempi ovviamente più contenuti. Chi vuole, poi, può proseguire fino al vicino (si fa per dire…) Cabo de Finisterre. Il gioco degli Anni SantiGli Anni Santi compostellani sono assai più frequenti di quelli universali, che cadono solitamente ogni quarto di secolo, a parte la possibilità di Giubileo straordinari come l’Anno Mariano del 1983. Il gioco degli anni bisestili, tuttavia, esclude intervalli fissi, dando invece vita a una cadenza piuttosto sorprendente. Prima del 2004, la festa di San Giacomo è caduta per l’ultima volta di domenica nel 1999, proprio alla vigila del grande Giubileo del 2000. L’intervallo è stato quindi di soli 5 anni, il minimo possibile, per via dei due 29 febbraio intermedi, mentre il prossimo sarà di 6, visto che il 25 luglio tornerà di domenica nel 2010, a causa dell’unico 29 febbraio intermedio. L’intervallo successivo sarà invece di ben 11 anni, perché stavolta l’anno bisestile intermedio cade in modo tale da far saltare la festa di San Giacomo dal sabato del 2015 al lunedì del 2016: la «Puerta Santa» jacobea si riaprirà pertanto nella notte di San Silvestro del 2020 per celebrare l’Anno Santo del 2021. Poi gli intervalli saranno ancora di 6, 5, 6, 11, 6, 5, 6, 11 anni e così via, con le eccezioni dei prossimi anni di fine secolo, che non essendo divisibili per 400 non saranno bisestili. Così il 2100 sarà Anno Santo dopo un «salto» di soli 6 anni anziché di 11, e il 2200 cadrà invece all’interno di un intervallo record di ben 12 anni, che si concluderà con il Giubileo compostellano del 2202. Lo diciamo, beninteso, per curiosità: non pensiamo infatti che nessun attuale aspirante pellegrino sia interessato a tenerne conto nella sua agenda… E per la Francigena un’occasione mancataSe in Spagna il «Camino», oltre a vantare una ricchissima tradizione, ha fatto segnare negli ultimi tempi una rivalutazione davvero eccezionale, con importanti ricadute economiche, in Italia non c’è assolutamente stata un’adeguata valorizzazione degli storici itinerari romei, nonostante il recente Giubileo del 2000 e i numerosi pellegrini che a piedi hanno raggiunto la Città Santa. Piero Amighetti, fondatore della «Confraternita dei Romei della Via Francigena», lamenta che da noi «manca la volontà del fare». Salvo poche eccezioni, come le province di Parma e Viterbo, il comprensorio di Sarzana, il tratto tra Castelfiorentino e Siena recuperato all’interno di un progetto di Alleanza Assicurazioni e qualche cartello in provincia di Lucca, non c’è stato finora l’auspicato, complessivo recupero di un percorso pedonale sulla nostra più nota via di pellegrinaggio medievale né tantomeno un’organica proposta di adeguati posti-tappa. «È una ferita aperta – dice – e la voglia di fare da stimolo comincia a passare. E pensare che basterebbero pochi soldi: a un convegno, anni fa, dissi come provocazione che se si fosse arrivati a una legge nazionale, il miliardo di lire necessario ce l’avrei messo io. A livello di politici e amministratori si sono fatti solo convegni e spese parole, ma niente di concreto. E pensare che la ricaduta sul territorio sarebbe notevole… Ci contattano anche dall’estero, dalla Francia ad esempio, per chiedere informazioni poi vengono qui e si stupiscono di non trovare neppure la segnaletica». Qualcosa di più è stato fatto a est, grazie soprattutto al Cai, con il recupero della Strada Romea almeno nel tratto tra Rimini e Sansepolcro – attraverso il territorio sanmarinese e il Sasso di Simone – e poi tra Sansepolcro e il Lago Trasimeno, con l’intenzione di completare il percorso fino alla capitale. Comunque non è detto che, anche per la Francigena, tutte le speranze siano perdute: chi di dovere è sempre in tempo a produrre qualcosa di concreto, possibilmente prima… del 2025! Per il momento, non resta che suggerire di attingere informazioni utili su www.viafrancigena.info, sito della Confraternita dei Romei.

A Santiago seguendo una «flecha amarilla»