Dossier
Santiago, il «Camino» esperienza religiosa unica
Dei tre pellegrinaggi più antichi della cristianità, il «Camino» è l’unico ancora effettuato prevalentemente a piedi. Negli 11 secoli della sua storia ha visto milioni di persone percorrere lo stesso esile sentiero sotto la Via Lattea, seguendo il cammino del sole. Perché? Verso cosa? Verso chi? Domande alle quali ogni pellegrino dà una risposta diversa. Molti mi chiedono anche perché questa esperienza, comprensibile in un giovane, io l’ho fatta proprio alle soglie della vecchiaia e per tre volte. Domanda legittima, un motivo c’è.
Mi accompagnavano l’entusiasmo e la paura del pioniere. Dentro di me prevaleva il senso dell’ignoto: di quello che mi aspettava non sapevo quasi nulla. Non mi aiutava l’aver letto che nel passato chi partiva faceva testamento, e che lungo l’antica strada avrei trovato molti cimiteri per i pellegrini. All’inizio mi sentivo sperduto in un paese sconosciuto, la lingua appena appena, come cavarsela tutto da provare. Allora il percorso non era attrezzato come oggi: a volte i rifornimenti alimentari erano problematici, ho dovuto dormire anche per terra, la salute dei piedi era un interrogativo ogni giorno.
L’anno dopo volli ripetere il pellegrinaggio per soffermarmi più a lungo nei tanti luoghi carichi di storia e d’arte che avevo attraversato in fretta. Questa volta la riflessione religiosa fu incentrata sul mio modo di pregare. Per motivi di tempo, qualche tappa la feci in autobus. Fu un peccato grave per un pellegrino che si rispetti: intravedere, ogni tanto, da dentro un pullman ad aria condizionata, i pellegrini affaticati sotto gli zaini, arrostiti dal sole della Castiglia o annaffiati senza pietà dalle auto in corsa sotto la pioggia sono immagini che ti rodono dentro. E così, dopo tre anni, per lavare quella vergogna, feci il mio terzo pellegrinaggio, questa volta interamente a piedi, senza sconti e fino a Capo Finisterre. Non per caso, il tema del mio andare fu il mio rapporto con la morte, che gli anni mi ricordavano si stava avvicinando.
Ma ben presto mi trovai in quello che l’esperienza religiosa ebraico-cristiana chiama «il deserto»: una situazione fisica e interiore in cui sei costretto a guardarti dentro in profondità ed a porti senza scampo gli interrogativi fondamentali della vita. E tutto questo non in poche ore ma per un lungo interminabile mese.
Molti si meravigliano dei tanti chilometri che ho percorso a piedi, con uno zaino sulle spalle. Non è quello il vero problema; pian piano i chilometri li fanno tutti: ho incontrato anche pellegrini ultraottantenni. L’impresa più ardua per me è stata camminare ogni giorno da solo: un lungo pellegrinaggio all’interno di me stesso, per fare il punto della navigazione, per chiedermi dove vado, per un confronto serio con quell’interlocutore interiore che qualcuno chiama Coscienza, altri «El de arriba», come dicono da quelle parti: «Quello lassù». Per 268 lunghe ore di cammino effettivo sono stato solo con me stesso, ho pensato, ricordato, meditato, gioito, sofferto, cantato, pregato. Un vero, lungo rifornimento per lo spirito, oasi nel deserto di un anno nel quale, se non vigilo, rischio di vivere solo in superficie e di inaridirmi come sughero. Lo scendere dentro di sé è un percorso più scomodo di quello che si fa con le gambe. Per questo il silenzio e l’inattività fisica fanno tanta paura a molti che preferiscono il rumore e il lavoro.
Ho pensato a lungo al Camino. Ho letto molto prima di muovere i passi. Mi sono preparato con cura, soprattutto nella scelta delle cose da portare sulle spalle, per camminare agevolmente, senza sfidare i miei limiti fisici. Certo, il Camino è una impegnativa prova con se stessi, ma volevo prevalesse lo spirito del pellegrinaggio non quello di un trekking in montagna. Sono così partito da Pamplona con uno zaino leggero, una bibbia tascabile, un libretto per scrivere e disegnare, la guida del percorso, un bastone. Non ringrazierò mai abbastanza don Giacomo Stinghi per avermi istruito ed essermi stato vicino nel mio andare.
Ho camminato in media 24 chilometri al giorno, stendendo la sera il sacco a pelo in uno dei tanti rifiugi per i pellegrini presenti sul percorso. Mi è capitato di arrivare talvolta tardi, la sera, dopo una tappa segnata da avversità, per il maltempo o per aver smarrito la «flecha amarilla», finendo fuori strada. E non sono mancate difficoltà. Una caviglia infiammata mi ha a lungo tormentato. Ma ogni mattino uscivo dal rifugio con l’entusiasmante attesa di ciò che il Camino aveva in serbo per me e la sera vi entravo, pur spossato dalla fatica, con la felicità per ciò che il Camino mi aveva donato.
«Il pellegrino non chiede ma ringrazia», dice un adagio. Non è solo un insegnamento all’umiltà. Sul Camino ho provato forte la sensazione che tutto ciò che vivevo fosse uno straordinario dono. Un dono in cui altrettanto forte si faceva sentire la presenza del sacro. Sì, del sacro. Avete letto bene. Sono un laico che riconosce e rispetta il sacro della vita e delle cose, che lascia aperta la porta al mistero, al miracolo. Con l’andare a piedi si ampliano le nostre capacità percettive, fisiche, mentali. Ma sul Camino scattano anche percezioni diverse, di qualcosa che supera la terrestrità, la nostra dimensione razionale.