Cultura & Società
Santi: Cecilia, Orsola e i copisti distratti
Festa di Ognissanti, di tutti i santi. Alcuni sono stati nostri contemporanei: con loro abbiamo condiviso un importante tratto di strada e ne conosciamo il volto, la voce, il modo di muoversi: ciò è vero, per esempio, per Padre Pio e per Escrivà de Balaguer. Di altri, un po’ più lontani nel tempo, oltre agli scritti, abbiamo i ritratti, le spoglie, le reliquie, da san Francesco a santa Teresa di Lisieux, passando per san Carlo Borromeo e san Filippo Neri.
Ma di quelli più antichi, di quelli delle origini, chi ci racconta la storia? San Paolo offre una testimonianza diretta su se stesso: nell’Epistolario egli accenna in prima persona al suo passato di accanito persecutore del cristianesimo e alla sua conversione in altrettanto zelante sostenitore. E gli Atti degli Apostoli lo confermano. Su Ambrogio, oltre alle opere, ci è giunta un’antichissima biografia del suo segretario, Paolino di Milano; sappiamo perfino che da bambino offriva la mano da baciare agli ospiti di casa, dicendosi sicuro che sarebbe diventato vescovo.
Anche sant’Atanasio, che siederà sulla cattedra episcopale di Alessandria d’Egitto, secondo il suo biografo da bambino per gioco battezzava i compagni. Negli scritti pagani il gioco è mezzo per anticipare la grandezza futura del protagonista. Nell’ottica cristiana l’antico topos assume il valore di presagio voluto da Dio. Di Agostino, Basilio, dei grandi monaci della tarda antichità rimangono testi scritti da loro stessi e/o agiografie; in quest’ultime la realtà storica di fondo si piega spesso a scopi di edificazione, con risultati che talora trasformano il personaggio in un modello. Non si tratta di adulterare lo svolgimento di un’esistenza, quanto di metterne in luce aspetti particolari, fino a renderla paradigma capace di rispondere a determinate esigenze. Tutti i santi vescovi del IV secolo si trovarono a fronteggiare il problema, di combattere le eresie e il paganesimo, facendosi garanti dell’ortodossia; la loro attenzione ai poveri è sentita in sottordine rispetto a queste priorità.
Nella «Vita di Martino» di Sulpicio Severo la carità di san Martino è esemplificata attraverso il famoso episodio del mantello diviso a metà col povero; la sua azione di evangelizzatore delle campagne della Gallia, di distruttore di templi pagani, di nemico delle superstizioni occupa buona metà del testo, con un’aneddotica varia e divertente; nella «Vita di Antonio», scritta da Atanasio, il protagonista (Antonio) lascia addirittura il deserto per tornare ad Alessandria, schierarsi contro gli eretici e sostenere i martiri.
Un capitolo a parte nella storia della santità è costituito proprio dai martiri, i santi per eccellenza, capaci di imitare Cristo nella maniera più compiuta, dando per lui la loro vita. Esistono «Passioni storiche», «Atti» di interrogatori, documenti risalenti all’epoca stessa delle grandi persecuzioni (II e III secolo), che testimoniano figure importanti come ad esempio Policarpo di Smirne. Ci sono inoltre giunte le cosiddette «Passioni epiche», scritte fra fine IV e V secolo, soprattutto di Scuola Romana, in cui la dimensione leggendaria prende il sopravvento. È il caso della Passio sanctae Caeciliae.
A Roma, all’inizio del III secolo d.C., la nobile fanciulla Cecilia è fidanzata al giovane pagano Valeriano ed è una fervente cristiana. Si celebrano le nozze e, rimasta sola con lo sposo, gli rivela il suo intento di rimanere vergine e la presenza di un angelo che veglia su di lei e la difenderà. Lo sposo, sconcertato, vorrebbe vedere il messaggero celeste, pronto a fare ciò che Cecilia desidera, qualora si tratti davvero di un messo di Dio, ma pronto anche ad ucciderla senza pietà con il suo eventuale amante se il tutto fosse una scusa per amare un altro. La ragazza precisa: per poter vedere l’angelo, Valeriano dovrà andare al terzo miglio della via Appia, dire ai mendicanti del luogo che lo manda Cecilia, chiedere loro del santo vecchio Urbano, rivestirsi dell’abito bianco. Valeriano si reca fuori città, incontra i poveri e il vecchio fra le tombe, è oggetto di un’apparizione, chiede e ottiene il battesimo. Torna da Cecilia vestito di bianco e vede l’angelo che offre a lui una corona di gigli, a lei di rose. Valeriano capisce ed implora la grazia della conversione del proprio fratello Tiburzio, che giunge in quel momento e sente uno straordinario odore di fiori. La giovane fa al cognato un lungo discorso sull’idolatria, sulla grandezza della vita eterna rispetto al presente, gli fa balenare la terribile realtà della punizione degli empi; racconta la vita e la passione di Gesù, i miracoli degli Apostoli. Quando tace, Tiburzio non può che andare con Valeriano da Urbano e farsi battezzare. Scopriamo che quel vecchio è il papa e che il prefetto Turcio Almachio perseguita i cristiani. I due fratelli seppelliscono i martiri, fanno opere di carità. Denunciati, arrestati, imprigionati, vivranno la loro passione. Col loro esempio faranno convertire uno degli aguzzini e tutta la sua famiglia: al battesimo di costoro sarà presente Cecilia, che si occuperà poi della sepoltura dello sposo, del cognato e del persecutore pentito. Poi viene arrestata anche lei e con la sua eroica resistenza fa proseliti. Al rilascio la sua casa si trasforma in luogo di culto: il papa stesso vi abita e celebra Messa. Almachio convoca la giovane in tribunale: un lungo dialogo dimostra la grande fede della protagonista che, condannata a morte, non muore. Tentano di bruciarla, ma sente il fuoco come refrigerio; tre colpi di spada non riescono a decapitarla. Vive ancora tre giorni: parla, prega, converte. Alla fine chiude gli occhi e il papa Urbano la seppellisce fra vescovi e martiri.
Il testo, apparentemente un romanzo, è in realtà pieno di riferimenti teologici ed esegetici. Che una martire di quel nome sia esistita, è certo. Le modalità della sua vita e della sua morte sono state tramandate attraverso il racconto di eventi che puntualmente rispondono a temi evangelici e neotestamentari, dal «paradosso» per cui la vita è morte, la morte è vita, al prevalere degli affetti spirituali su quelli carnali, al maggior valore della verginità rispetto al matrimonio. Le azioni di Cecilia esemplificano la fede in Cristo e rispondono a quella che gli addetti ai lavori chiamano «esegesi narrativa», ossia spiegazione della Scrittura attraverso la narrazione di una vicenda. Al resto hanno pensato la fantasia degli scrittori successivi, la pietà popolare, e gli errori dei copisti.
Nella storia riassunta sopra, si nota l’assenza di ogni riferimento al rapporto fra la santa e la musica. Da dove nasce questa idea? Al momento della festa per le sue nozze si legge che al suono degli strumenti Cecilia cantava al solo Signore nel suo cuore (cantantibus organis….in corde suo soli Domino decantabat). Una parte della tradizione ha soppresso l’espressione «nel suo cuore»; anche nella liturgia, nella prima antifona delle lodi e del vespro del 22 novembre, manca in corde suo. Così Cecilia è diventata musicista, perché «al suono degli strumenti cantava al Signore».
Ancora più eclatante il caso di Orsola e delle sue compagne di vita e di martirio. Secondo un’iscrizione di IV-V secolo trovata nella basilica di Colonia dedicata alla santa, un certo Clemazio aveva fatto restaurare l’edificio sacro nel quale «le sante vergini nel nome di Cristo versarono il loro sangue». Si è pensato a vittime della persecuzione di Diocleziano. Poi, per alcuni secoli, il culto sembra scomparire; a partire dalla metà del IX secolo, testi liturgici e agiografici riprendono ad alludervi; si danno i nomi delle sante, fra cui Orsola; si fissa il numero in undici. Infine succede qualcosa di strano: undici diventa undicimila. Forse è stata sciolta male un’abbreviazione presente in una iscrizione o in un manoscritto: fatto sta che sopra il numero XI è apparso un trattino orizzontale che moltiplica il numero per mille. Errore involontario, o falsificazione per dare maggiore importanza alla Chiesa di Colonia? Si potrebbe anche pensare ad un errore di latino. Il martirio si svolse ad undecimum miliarium, all’undicesimo miglio dalla città, indicazione fraintesa. Dallo stesso periodo inizia a circolare anche la leggenda di Orsola, figlia di un re bretone, bellissima e devota, che intende dedicarsi a Dio. Un re pagano vuole darla in sposa a suo figlio; il rifiuto scatenerebbe una guerra. Così per consiglio di un angelo, Orsola finge di acconsentire, ma chiede tre anni di tempo e che il fidanzato diventi cristiano. Allo scadere del tempo fissato, Orsola fugge su undici triremi con undicimila compagne. Una tempesta spinge le navi verso il continente e risalgono fino a Colonia. Qui Orsola si sente profetizzare il martirio. Lungo il Reno, le fanciulle giungono a Basilea, poi a piedi a Roma. Infine tornano a Colonia, assediata dagli Unni. Scese a terra, i barbari le uccidono. Per ultima sbarca Orsola; la sua bellezza colpisce il capo dell’orda, che viene respinto e la fa uccidere.
Ma una visione impedisce agli Unni di saccheggiare le navi e li mette in fuga liberando la città. Il tema del viaggio sulla nave, da sempre simbolo della Chiesa, che attraversa il mare della vita nel mondo verso il porto dell’eternità, il sangue delle fanciulle che salva la città assediata, la discesa verso Roma, la morte in nome della purezza e dell’amore per Cristo, il numero esorbitante: tutto si carica di valori simbolici evidenti. E viene quasi voglia di dire che l’errore in realtà ci aiuta a capire meglio il valore di leggende che non scalfiscono la nostra fede, anzi ci regalano squarci di poesia e fanno riflettere. Dobbiamo essere grati ai santi anche per questo.