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Sant’Anna di Stazzema, il senso della giustizia sessant’anni dopo
I colpevoli sono stati giudicati in contumacia. Per lo più sono ormai degli ottantenni per cui, se si calcola la speranza di vita media che rimane loro davanti, anche un ergastolo, oltre a non essere probabilmente scontabile per l’età avanzata, si riduce in pratica ad una condanna da ladri di polli. Né molto senso pratico sembra avere la condanna al pagamento dei danni quando, dopo oltre mezzo secolo, parentele, ricordi e persino conoscenze si sono naturalmente allentate o addirittura dissolte.
Eppure, se la giustizia non ha solo una funzione riparatrice, ma anche e soprattutto un risvolto esemplare e didattico per chi c’era allora e per chi ci sarà domani la sentenza di La Spezia è importante. Già alcuni anni fa a proposito del processo Priebke la stessa comunità ebraica si dichiarò soddisfatta di una condanna per chi aveva fatto eseguire il massacro delle Fosse Ardeatine anche se non si chiedeva l’espiazione del carcere per un uomo ormai vecchio e malato.
La sentenza per Sant’Anna di Stazzema è uno dei rarissimi casi che buca per qualche centimetro una cortina pesante di silenzi, di omertà, di occultamenti sulle stragi naziste durata per più di cinquant’anni in nome dello spirito di corpo, della solidarietà intermilitare, delle alleanze internazionali e via dicendo.
Essa è indubbiamente anche il frutto di un nuovo clima che, negli ultimi anni, ha portato alla revisione di alcuni protocolli della convenzione di Ginevra sulla possibile rappresaglia verso le popolazioni civile, alla dichiarazione della imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità e alla creazione dei vari tribunali internazionali per cui appare sempre più intollerabile che mentre si processano i massacratori del Rwanda si continui a chiudere un occhio su chi ha massacrato da La Spezia a Rimini.
Ma i giudici di La Spezia hanno messo per la prima volta nero su bianco non solo il diritto ma il dovere dell’obiezione di coscienza di fronte ad ordini così mostruosi. Il procuratore De Paolis ha sottolineato il fatto che nessuno degli accusati ha potuto citare un solo caso in cui un militare sia stato passato per le armi per aver disobbedito agli ordini. In realtà l’impunità non era così automatica e universale, ma non c’è dubbio che l’alibi della esecuzione degli ordini è stata la grande anestesia morale del popolo tedesco durante la follia nazista. Già anni fa Primo Levi si domandava come questo feticcio dell’obbedienza assoluta abbia avuto un’adesione così grande in Germania e come mai uomini normali, amanti dei fiori e della famiglia, affezionati agli animali e magari vegetariani come Hitler, abbiano potuto trasformarsi in macchine di morte senza pietà verso nessuno una volta infilati dentro una divisa.
Quarant’anni dopo la condanna dell’obiettore di coscienza Giuseppe Gozzini che provocò la famosa lettera di Don Milani, L’obbedienza non è più una virtù, ora un tribunale condanna delle persone non per avere obiettato, ma per non avere obiettato. Se non è una rivelazione è certo una rivoluzione. Anche a costo di qualche rischio davanti alla responsabilità di simili orrori. Perché in questi casi paradossalmente per un militare è vile proprio l’obbedienza. E proprio Gandhi diceva che è il non violento che non conosce la paura.