Italia
Sanità, sempre più italiani rinunciano a curarsi
Peggio di due anni fa. La maggioranza degli italiani in modo trasversale a territori e gruppi sociali e» convinta che il Servizio sanitario della propria regione sia peggiorato negli ultimi due anni (e» il 45,1% degli italiani a pensarlo, +2,4% rispetto al 2015). E nelle regioni meridionali questo peggioramento riguarda strutture e servizi che erano già considerati inadeguati rispetto ai fabbisogni sanitari locali. Cresce ruolo e peso relativo della sanità a pagamento per i cittadini, in particolare la componente privata. Infatti, sono 10,2 milioni gli italiani che dichiarano che negli ultimi anni hanno fatto maggiore ricorso al privato. Ed è un dato tanto più rilevante, tenuto conto che sono anni di ridefinizione profonda dei bilanci familiari, con decurtazione delle spese. La crescita del ricorso al privato è ascrivibile ad una ragione fondamentale che prevale su tutto il resto: la lunghezza delle liste di attesa (72,6%). È questa la ragione che più di ogni altra spiega perché i cittadini si rivolgono ad una struttura privata, seguono poi anche ragioni di comodità legate agli orari lunghi o all’apertura nel weekend o alla contrazione della matrice di prestazioni offerte nel servizio sanitario pubblico. Sempre le liste di attesa spiegano il ricorso all’intramoenia da parte di 7 milioni di italiani in un anno. Se la ragione fondamentale è la lunghezza delle liste di attesa e quindi la volontà di accedere più velocemente alle prestazioni, tuttavia colpisce la quota di cittadini che esplicitamente dichiara che e» stato il medico a consigliare il ricorso alla sanita» a pagamento dentro le strutture pubbliche (22,9%).
Meno sanità pubblica, più sanità privata. Il dato rilevante, nella ricerca di Censis-Rbm Assicurazione Salute «Dalla fotografia dell’evoluzione della sanità italiana alle soluzioni in campo», è che cresce ulteriormente il numero di italiani che ha dovuto rinunciare o rinviare prestazioni sanitarie in un anno: erano 9 milioni nel 2012 sono diventati oltre 11 milioni nel 2016 (+2 milioni). Meno sanità pubblica, più sanità privata e anche meno sanità e quindi anche meno salute per chi ha difficoltà economiche o comunque non riesce a pagare di tasca propria le prestazioni nel privato o in intramoenia. È l’universo della sanità negata che non accenna a prosciugarsi e anzi tende a dilatarsi, di fronte ad una nuova geografia della sanità fatta anche di alte barriere e nuovi confini nell’accesso al pubblico e obbligo di fatto di comprare prestazioni sanitarie. Ampia è ormai l’area sociale che semplicemente non riesce a finanziarsi le prestazioni di cui avrebbe bisogno. Boom, quindi, della spesa sanitaria privata che nel 2015 sale a 34,5 miliardi di euro con un aumento reale di +3,2% rispetto al 2013, praticamente il doppio della spesa totale per consumi. L’incremento di spesa sanitaria privata è tanto più impressionante se si considera la dinamica deflattiva che, nel caso di alcuni prodotti e servizi sanitari è rilevante. Del resto pensando ai consumi sanitari e non alla spesa il 37,0% degli italiani dichiara che sono aumentati negli ultimi anni, il 56,7% che sono rimasti inalterati e solo il 6,3% che sono diminuiti.
Più sanità soprattutto per chi può pagarsela. Si è generalizzata tra gli italiani l’esperienza di ticket sanitari per singola prestazione di poco superiori o uguali alla tariffa intera praticata nelle strutture private (45,4%, +5,6% rispetto al 2013). D’altro canto, non è alta la quota dei cittadini che dichiara di avere percepito la contrazione dei prezzi praticati nelle strutture private. In buona sostanza, i cittadini riscontrano più l’incremento del valore dei ticket che la tendenza alla riduzione delle tariffe nel privato. Il trade-off pubblico-privato è cambiato perché le esigenze di bilancio hanno spostato sulle famiglie una parte significativa del costo delle prestazioni sanitarie erogate dal pubblico. In estrema sintesi, si può che dire che vince l’incubo delle liste di attesa troppo lunghe che sono il perno esplicativo dei comportamenti sanitari degli italiani di questi anni, che obbligano i cittadini ad usare il privato e l’intramoenia come porta di accesso accelerato alla cura. Per avere prestazioni nel pubblico devi aspettare a lungo, e quando hai accesso comunque devi affrontare costi che non sono sempre lontanissimi da quelli con i quali accedi al privato: ecco il nuovo frame in cui si collocano le scelte sanitarie degli italiani.
I cittadini hanno molto chiaro che in sanità esiste un problema di sprechi e inappropriatezza: sono infatti 5,4 milioni gli italiani che in un anno hanno ricevuto prescrizioni di farmaci, visite o accertamenti diagnostici che si sono rivelati inutili. Tuttavia il 51,3% degli italiani è contrario a sanzionare i medici che fanno prescrizioni che si rivelano inutili: di questi il 15,1% perché si ridurrebbe la copertura dei cittadini ed il 36,2% perché il medico deve decidere da solo. Il 48,7% è favorevole, di cui il 21,2% solo se la legge indica precisamente quando prescrivere ed il 27,5% perché pensano che i medici fanno troppe prescrizioni e con troppa facilità. Sebbene il famoso decreto appropriatezza sia rimasto una tigre di carta, ha però rimesso volta all’attenzione generale, dai decisori ai cittadini, il ruolo dei medici rispetto ai consumi sanitari. Netta però la contrarietà degli italiani ad una legge che determina le condizioni che rendono una prestazione necessaria e quindi possibile pagarla solo con il ticket e non per intero: il 64,0% è contrario, di questi il 50,7% perché solo il medico può decidere se la prestazione è realmente necessaria, e il 13,3% perché le leggi sono animate solo dalla logica dei tagli. I favorevoli sono invece il 36,0% di cui il 21,9% perché è possibile definire quando una prestazione è realmente necessaria e il 14,1% perché lasciando al singolo medico ci sono troppe differenze. Il tema appropriatezza, quindi, non è indifferente agli italiani e tuttavia temono che sia uno strumento per accelerare i tagli alla sanità, e per trasferire sui cittadini il costo delle prestazioni. Prevale la sfiducia nelle reali finalità dell’operazione appropriatezza e, quindi, è forte la tentazione a ricercare nel medico il vero baluardo dall’economicizzazione della sanità e da tagli di spesa in sanità.
Le polizze integrative. Il 23,1% degli italiani intervistati nel corso della propria vita si è visto proporre l’acquisto di una polizza sanitaria integrativa oppure l’adesione a un Fondo sanitario integrativo; di questi ad aderire sono stati l’8,8% laddove il 14,3% ha rifiutato. Il 30,7% ha accettato perché dichiarava di spendere troppo di tasca propria per la sanità e così risparmia, il 25% perché comunque era una tutela estendibile a tutto il nucleo familiare, il 13,6% per poter accedere piu» velocemente alle prestazioni. Le ragioni del rifiuto sono state soprattutto l’alto costo della polizza per il 49,7% e per il 28,7% il non essere convinto della loro utilità, il 21% perché non si fida di assicurazioni private, fondi sanitari integrativi, ecc. Ideologicamente la sanità integrativa è largamente sdoganata tra gli italiani visto che ben il 57,1% è d’accordo che chi può permettersi di acquistare una polizza o lavora in un settore in cui esiste il fondo integrativo contrattuale è giusto e utile che la stipuli o aderisca, perché potranno ricorrere a strutture private disintasando il pubblico e perché così la sanità nel suo insieme avrà più risorse. Quasi il 43% di contrari invece teme sanità a più velocità e il 13,7% teme il vantaggio della doppia copertura per alcuni.
Sono 26,5 milioni gli italiani che esprimono una propensione all’acquisto di una polizza sanitaria integrativa o all’adesione ad un fondo sanitario integrativo. Qualora utilizzassero risorse annuali pari alla spesa sanitaria privata procapite potrebbero mettere in moto risorse pari a 15 miliardi di euro l’anno. È chiaro che tramite il meccanismo della mutualità tali risorse potrebbero acquistare quantità più elevate di prestazioni rispetto a quanto fanno oggi sui mercati molecolari privati. Riguardo alla propensione all’innovazione nei rapporti con la sanità integrativa riscontrata tra i cittadini, il 22,6% acquisterebbe una polizza se per le risorse che già spende per la sanità fosse data possibilità di scegliere se versarli al Ssn o destinarli alla sanità integrativa, di contro al 77,4% che invece preferirebbe lasciarli al Ssn. Il 46,9% dei cittadini è d’accordo con l’adozione dell’opting out nel nostro Paese, ovvero la previsione dell’uscita di alcuni gruppi sociali dalla copertura pubblica e l’acquisto di una polizza sostitutiva (e non integrativa come quelle attualmente in uso in Italia). Tra questi il 27,2% ritiene che però debba essere una scelta volontaria del cittadino, mentre il 19,7% pensa che debba essere un obbligo. In termini di trend sta crescendo l’attenzione e la legittimazione della sanità integrativa, vista come efficace meccanismo di mutualizzazione di un rischio che oggi è individualizzato, cioè è in capo alle singole famiglie che di fronte all’insorgere di un bisogno sanitario sono chiamate a metter mano al proprio portafoglio e ad acquistare direttamente ciò di cui hanno bisogno soprattutto se lo vogliono avere tempestivamente. Non è una forzatura rilevare che si stanno creando le condizioni economiche, sociali e di percezione collettiva funzionali ad una nuova fase di sviluppo di ruolo della sanità integrativa. Il tema è sul piatto, e ovviamente è importante l’approccio dei decisori ai vari livelli nel comprendere la funzione specifica che la sanità integrativa può esercitare in un sistema che ambisce a preservare la sua capacità inclusiva e di rassicurazione sociale diffusa.
Lorenzin: non si possono fare le nozze coi fichi secchi. A proposito dei dati diffusi dal Censis sugli italiani che rinunciano alle cure a causa delle code nelle liste d’attesa e delle difficoltà economiche, il ministro Beatrice Lorenzin ha dichiarato: «Si tratta di un problema che abbiamo presente, trovare una soluzione per noi rappresenta una priorità e stiamo operando da tempo con il ministero dell’economia e delle finanze, le Regioni ed i professionisti del Servizio sanitario nazionale. La soluzione, come ho avuto modo di ribadire più volte, passa da una profonda riorganizzazione del sistema delle liste di attesa, soprattutto in alcune regioni italiane. Quello che il Censis non rileva è che alcuni territori del nostro Paese offrono modelli sanitari d’avanguardia, altre non garantiscono, come dovrebbero, il funzionamento della rete territoriale, prima e dopo il ricovero in ospedale. L’obiettivo è quello di uniformare l’intero territorio nazionale su standard elevati, così da permettere a ciascun cittadino di ottenere in tempi rapidi prestazioni sanitarie di qualità. Per raggiungere questo obiettivo ho intenzione di proporre l’inserimento nel mio decreto legislativo sulla nomina dei direttori generali delle aziende sanitarie di una norma che imponga di valutare i manager anche in relazione agli obiettivi di riduzione delle liste d’attesa. Intanto una prima svolta verrà a breve introdotta con i nuovi Livelli essenziali di assistenza, con l’ingresso nel Ssn di nuove prestazioni gratuite attese da quindici anni. Per questo obiettivo ho fatto stanziare in legge di stabilità 800 milioni di euro per anno». Da molte settimane «il provvedimento è all’esame della Ragioneria generale dello Stato, da cui sto attendendo il via libera. Spero ciò avvenga al più presto e che i nuovi Lea, assieme al nuovo Nomenclatore protesico, possano entrare in vigore».
«Trovo singolare – prosegue Lorenzin – che secondo l’indagine del Censis il 51% degli italiani si schieri contro le sanzioni ai medici per le prescrizioni inutili, sanzioni che non ci sono, come ho avuto modo di ripetere più volte. È importante eliminare tutti gli sprechi, e i fenomeni di corruzione contro i quali abbiamo lavorato insieme al presidente dell’Anac Cantone: il nostro obiettivo rimane reinvestire in sanità tutto quanto recuperiamo e i provvedimenti assunti daranno grandi risultati. È chiaro che il Sistema sanitario nazionale deve fare i conti con la grave crisi economica che le famiglie italiane stanno vivendo, e questa indagine del Censis ci conferma la necessità di difendere l’aumento previsto del Fondo sanitario nazionale per gli anni 2017 e 2018, che intendiamo utilizzare per sbloccare il turn over e stabilizzare il personale sanitario precario, rifinanziare il Fondo per l’epatite C, coprire i costi dei nuovi farmaci oncologici e garantire a tutti i cittadini accesso gratuito alle cure. Deve essere chiaro a tutti che non si possono fare le nozze con i fichi secchi».