Cultura & Società
Sanguinacci per palati rustici
di Gian Marco Mazzanti
La rubrica di questa settimana vogliamo dedicarla a una categoria di insaccati diciamo un po’ particolari: i «sanguinacci». L’arte dei norcini non consisteva solo nella preparazione dei salumi, ma anche nell’uccisione del maiale che doveva avvenire nel modo più rapido e indolore possibile, in segno di rispetto per una bestia dalla quale dipendeva la sopravvivenza di intere famiglie.
L’uso alimentare del sangue è radicato nel tempo: all’epoca dei Romani pare che quello umano fosse impiegato in medicina nella cura dell’epilessia e si dice che Erasistrato, medico alessandrino padre dell’anatomia, offrisse ai suoi ospiti la carne accompagnandola con una salsa a base di sangue animale e miele.
In Italia, di sanguinacci e di insaccati affini ce n’è una notevole varietà dovuta al fatto che, soprattutto una volta, non si buttava via nulla; e anche il sangue del maiale rappresentava un’abbondante ed economica fonte di proteine, vitamine e ferro. Ogni regione ha la sua proposta contraddistinta dai nomi più disparati o dalle preparazioni più disparate. La Toscana è la terra d’elezione degli insaccati a base di sangue. Ed è curioso che nella regione che vanta l’aristocrazia della produzione agroalimentare italiana (olio, vino, prosciutti, pani, pecorini, ecc) si continuino a consumare questi salumi umili, rustici, assolutamente antimoderni. La grande varietà di preparazioni ancora esistenti, testimonia della capillare diffusione dei sanguinacci: ogni fattoria, in pratica, possedeva un metodo per cucinare e conservare il sangue fresco e ognuno lo condiva come gli pareva.
Cominciando dal nord della Toscana, troviamo subito una nostra conoscenza il biroldo della Garfagnana. La tradizione vuole che a preparare il biroldo fossero le donne in quanto per la realizzazione è richiesta molta manualità e altrettanta pazienza. Tecnicamente parlando, non è un sanguinaccio vero e proprio. Per produrlo si utilizza solo la testa del suino, in tutte le sue parti, compresa la lingua; l’aggiunta finale di sangue fresco fa sì che di fatto il biroldo non possa venire confuso con una delle tante specialità di «testa in cassetta» o «soprassata» che si producono in Toscana. Si fa bollire la testa per tre ore, si disossa accuratamente e si aggiunge una piccola quantità di sangue e via via le spezie e gli aromi dove prevale il classico finocchio selvatico. L’impasto è poi insaccato nello stomaco suino che viene cucito e poi posto a bollire per altre tre ore; terminata la seconda cottura, si lascia raffreddare all’aria sotto la pressione di un peso perdendo così le parti più grasse. Si consuma tagliato a fette accompagnato dal tipico pane di castagne (pane di neccio).
Un sanguinaccio vero e proprio è invece il mallegato. Con lo stesso termine si identificano due prodotti, abbastanza diversi tra loro e di due territori ben distinti: si tratta del «mallegato di San Miniato» e quello «di Volterra». A San Miniato lo si prepara utilizzando solo sangue fresco, lardello tagliato a dadini, pinoli, uvetta, noce moscata, cannella sale e pepe; il tutto viene mescolato con delicatezza e insaccato a crudo nel budello di vitello, stando attenti a non riempirlo del tutto, perché al momento della cottura scoppierebbe. Da questa operazione di legatura (lente) deriva il nome, «mallegato», cioè legato «lente». Quindi il sanguinaccio va in pentola a bollire sino a che il cuore del salume non raggiunge i 90° C. Si può gustare freddo tagliato a fette, ma anche tagliato più spesso, infarinato nella farina di mais, tuffato in olio bollente e poi servito con accanto un contorno di erbe amare di campo (contrasto amaro-dolce). A Volterra, invece, il mallegato si prepara aggiungendo al sangue bollito per due ore, lardelli a tocchetti, uvetta, spezie varie e una particolare «pappetta» realizzata con pane toscano raffermo messo a mollo nell’acqua e sfatto con le mani; il tutto viene poi insaccato in budello naturale e bollito in abbondante acqua bollente fino a che sale in superficie; tolto dall’acqua viene appeso in cantina ad asciugare per una giornata. Si mangia cotto sulla brace o tagliato a fette, infarinato e passato in padella. Di questo particolare insaccato si rischia l’estinzione per pura pigrizia alimentare e per la mancanza di curiosità nelle nuove generazioni verso cibi antichi e insoliti; per fortuna, da qualche anno, un macellaio locale, affezionato alle abitudini del luogo, ne ha ripresa la produzione e, almeno per ora, scongiurato l’estinzione.
Sempre nel territorio pisano troviamo un altro sanguinaccio o, per l’esattezza, un altro insaccato nel quale si aggiunge nell’impasto del sangue di maiale: la soppressata di sangue, variante della soprassata più tradizionale alla quale viene aggiunta una minima quantità di sangue. La sua preparazione prevede, dopo la classica bollitura della testa del maiale e la sua susseguente disossatura, l’aggiunta del sangue nell’impasto a scapito di alcuni aromi come il prezzemolo, la scorza del limone o dell’arancia presenti nell’impasto della soprassata classica.
Soprattutto nel senese, ma anche nelle campagne fiorentine, troviamo il sanguinaccio forse più famoso e conosciuto: il buristo. La sua preparazione prevede l’utilizzo di gran parte delle parti della testa del maiale, compresa la lingua, e parti delle cotenne, lessate e finemente condite con spezie varie, aglio e buccia d’arancio; all’impasto viene aggiunto del sangue filtrato e del lardo lessato; il tutto insaccato nello stomaco e cotto lentamente in acqua (in alcune varianti anche nel vino). Si consuma freddo, a fette (io consiglio di tagliarlo a fette alte 2 cm e ricoprirlo con cipolla rossa tagliata finemente). Un altro metodo per gustare il buristo, ma anche il biroldo, è quello di tagliarli a fette e metterle a scaldare in padella sino a quando il grasso comincia a sciogliersi; a quel punto si aggiunge mezzo bicchierino d’aceto, si incoperchia e si spegne la fiamma; pochi minuti di stufatura e poi si può servire. Sempre nei dintorni di Firenze, e più precisamente nella Val di Sieve, troviamo un altro sanguinaccio un po’ «sui generis»: il bardiccio. Ho detto «sui generis» perché la quantità di sangue è minima ed è dovuta al fatto che, per la preparazione di questo insaccato, si usano anche il cuore e il polmone che sono già sanguinolenti di suo. Si tratta, quindi, di una specie di salsicciotto che di regole ne ha una sola: scarti. Scarti di maiale, ma anche di manzo, pezzi cuore e di polmone, frattaglie varie, più finocchio e aglio. Salsiccia, quindi, per palati forti, la merenda dei cacciatori» veniva una volta definita; oggi cruda è piuttosto difficile mangiarla, ma cotta ha vari utilizzi: alla griglia, in umido, o per farci crostini o risotti.
Della stessa famiglia del bardiccio è il mazzafegato, altra salsiccia, tipica del territorio aretino, che prevede l’utilizzo di frattaglie, in particolare del fegato che viene tritato e speziato con l’aggiunta di cubetti di lardo. Anche in questo caso si consuma da cotto. Sempre da queste parti, nell’aretino, troviamo anche un vero e proprio sanguinaccio: il sanbudello. Anche in questo caso si tratta di una salsiccia che prevede un impasto di sangue con le classiche frattaglie tritate e pezzi di grasso; il tutto condito con semi di finocchio, aglio, sale e pepe. Una volta stagionato, si usa mangiarlo con melone o fichi.