Cultura & Società

San Miniato, l’eterno scontro tra bene e male

di ANDREA FAGIOLI

Un testo bello, elegante, a tratti raffinato, che rende ragione alla sottigliezza dell’intrigo politico, ma anche, purtroppo, alla perfidia, a volte, dell’animo umano. «La testa del profeta», tre atti di Elena Bono, si distingue per il linguaggio e la dialettica serrata, purché non se ne abusi nei tempi, ricordando che quelli teatrali non possono essere quelli della lettura. In questo senso, nonostante l’indiscussa bravura degli attori, appare eccessivamente lunga, soprattutto nella prima parte (un’ora e quarantacinque), la messa in scena (fino al 29 luglio) per la tradizionale Festa del teatro di San Miniato, che ogni anno, dal 1947 ad oggi, «propone – per dirla con il direttore artistico Salvatore Ciulla – un teatro che cerchi il senso delle cose, che si faccia luogo di confronto e di dibattito sui valori del vivere e contribuisca a far crescere tra gli uomini il bisogno di riflettere su di sé e sul mondo, in nome di un’arte che non sia fine a se stessa, ma contribuisca a migliorarlo questo mondo, a renderlo più pacifico e solidale».

I drammi della Bono, più di altri, sembrano avere i requisiti giusti: lo scontro tra il bene e il male, la vita e la morte, la libertà e la responsabilità, Dio e il nulla. «Quando ci si immerge nella lettura delle opere di Elena Bono si avverte – a giudizio del gesuita padre Ferdinando Castelli – l’atmosfera della grande letteratura. L’uomo si scontra con le domande radicali sulle quali si gioca il suo destino». «Ebbene sono proprio queste le domande che l’Istituto del Dramma popolare di San Miniato – lo ribadisce il suo presidente Stefano Petrucci – cerca di proporre ogni anno all’attenzione dello spettatore, senza avere alcuna pretesa di dare risposte assolute, ma sicuramente di stimolare in ognuno di noi lo sforzo di una propria ricerca interiore».

A favorirla, quest’anno, è il travaglio di personaggi evangelici noti: Erode, Erodiade, Salomè, a cui si aggiungono il sacerdote Anna, il ministro Cusa, il figlio Daniele, il legato romano Mamerco Scauro, il buffone di corte Abba Dima… con la presenza-assenza particolarmente «ingombrante» del Battista e, attraverso di lui, del Cristo.

Sin dall’inizio, a conferma della bontà del testo nel senso detto e oltre l’appunto sulla lunghezza, assistiamo a quella che è stata definita «una sottile schermaglia di intelligenze» tra Cusa e Anna a suon di «Tua Venerabilità», «Sua Grandezza», «Tuo Potere», «Suo Spelndore»… Un linguaggio forbito, finalizzato ognuno al proprio tornaconto, bruscamente interrotto dall’irrompere in scena dell’irascibile Erodiade sconvolta dalle grida della folla che riecheggiano le accuse rivolte contro di lei dal profeta Giovanni. Da qui, ma anche dalla convinzione del legato romano Mamerco Scauro, la decisione di mettere a morte il Battista. Decisione alla quale, non potendosi opporre a Roma, si piega anche il ministro Cusa che fino ad allora aveva protetto Giovanni, usandolo come un’arma contro la regina.

Nemmeno Erode, che avverte nei confronti del Battista un sentimento ambivalente, saprà opporsi, anzi: non deciderà, lascerà al caso, un «caso» che inaspettatamente si chiama Salomé, l’adolescente in apparenza fragile e indifesa dietro la quale si nasconde la donna avida di potere e di ricchezza, che chiedendo la testa del profeta sconvolgerà il giovane innamorato, Daniele, che diviene il simbolo dello smarrimento di chi aveva creduto in Giovanni e nella sua capacità di rinnovare il mondo. Si tratterrà a stento dall’uccidere il Tetrarca e la fanciulla, frenato anche dall’arrivo di Abba Dima, il buffone di corte che si scopre essere seguace del Battista.

A «La testa del profeta» s’interessò anche Pasolini, per trarne un film. Ma la Bono ritenne che non fosse il caso di mischiare due strade artistiche e spirituali a suo giudizio troppo diverse. Negli anni successivi se ne pentì, soprattutto dopo aver visto la Salomé (molto simile alla sua) del Vangelo secondo Matteo: «Probabilmente se avesse lui diretto il film avrebbe colto quello che è l’essenziale spirito della mia opera, ossia dramma non tanto religioso quanto politico. Una partita a scacchi giocata con freddezza da tutte le “dràmaties personae” e la posta in gioco è proprio la testa di Giovanni». Un gioco di potere, dunque, un mondo politico corrotto, «che – come spiega il giovane regista Carmelo Rifici – si muove velocemente verso la distruzione del concetto stesso di Stato» e attorno al quale «gira il vento di una nuova corrente, quella portata da Giovanni Battista e Gesù Cristo».

A proposito dell’ambientazione del dramma in anni recenti (l’inizio del Novecento e il ventennio fascista) e del continuo dissidio tra il bene pubblico e l’interesse privato, il regista dice di aver scelto di ambientare la vicenda in un’epoca più vicina a noi «al fine di comunicare allo spettatore la ripetibilità del male e del meccanismo della corruzione». In questo senso poteva spingersi ben oltre.

Sito dell’Istituto Dramma Popolare di San Miniato