Opinioni & Commenti
Salvare il Servizio civile è possibile. I fondi ci sono: due «caccia» valgono 50 mila giovani
di Emanuele Rossi
Il Servizio civile è stato oggetto, in queste ultime settimane, di interventi diversi, in certa misura contraddittori: una sentenza del Tribunale di Milano ha stabilito che ad esso devono essere ammessi anche gli stranieri residenti in Italia (mentre la legge stabilisce il contrario); il Ministro Riccardi ha dichiarato che, se non si troveranno altre risorse, nel 2013 esso finirà; la Regione Toscana ha approvato una nuova legge regionale che ridisciplina il servizio civile regionale.
È difficile, in queste brevi note, approfondire tutti questi aspetti, ma forse è utile fare qualche chiarezza.
Il Servizio civile nazionale è stato istituito nel momento in cui fu abolita (anche se correttamente si dovrebbe dire «sospesa») la leva obbligatoria, al fine di non perdere la felice esperienza dell’obiezione di coscienza al servizio militare.
Da allora esso ha consentito a diverse migliaia di giovani di vivere questa forma di impegno, che dovrebbe costituire un modo per «servire la Patria» (in un’accezione quindi ben diversa dalla difesa dei confini esterni dello Stato) e, insieme, di formare se stessi sperimentando forme di solidarietà a vantaggio del bene comune.
Il problema è che quest’attività dello Stato «costa» (sebbene molto poco, relativamente alle spese complessive dello Stato): e la quota necessaria è di anno in anno diminuita.
Così che anche il numero di giovani avviati a questo servizio è diminuito progressivamente: nel 2006 si era arrivati a quasi 46.000 giovani; nel 2011 siamo scesi a 20.000.
Con la conseguenza che le domande inevase aumentano: nel 2010 il numero delle candidature dei giovani è stato il doppio rispetto ai posti messi a bando.
Ora il Ministro avverte, come detto, che se non arrivano nuovi fondi nel 2013 non partirà nessuno.
Nel frattempo le regioni hanno previsto dei servizi civili regionali, ma con modalità (e risorse) assai diversi da regione a regione: e soprattutto con finalità che dovrebbero essere diverse, perché non mirate alla «difesa della Patria» ma a realizzare fini definiti da ciascuna regione.
E soprattutto con una differenza di status tra il giovane che fa il servizio nazionale e quello regionale: soltanto al primo, infatti, sono assicurati quei «benefici» che la legge nazionale prevede.
Alla luce di questa situazione, quali prospettive si aprono per il futuro?
Mi pare che l’alternativa sia semplice e, ad un tempo, grave. La prima possibilità è che lo Stato condivida la «grande rilevanza del Servizio civile per la formazione dei giovani e per il sostegno che essi danno in settori di vitale importanza per il Paese» (come affermato dal ministro Riccardi) e decida di investire su di esso, più di quanto non abbia fatto negli ultimi anni. E perché l’entità del finanziamento sia adeguata e congruente agli scopi e alle finalità occorre classificare il servizio civile tra quegli istituti e attività cui deve essere riservata una quota fissa di finanziamento annuale, non comprimibile dalle leggi finanziarie annuali. Le strade ci possono essere: mi riferisco ad esempio alle risorse destinate alla «difesa» e sin qui utilizzate esclusivamente per l’organizzazione militare: ma se «difesa» è anche quella del servizio civile non si vede perché anche quest’ultimo non debba essere destinatario di quelle risorse. Si pensi che, secondo alcune stime, con il costo attuale di due dei 90 cacciabombardieri F35 che il Ministro della difesa ha deciso di acquistare si potrebbero far partire per il servizio civile 50.000 giovani; oppure si pensi ai fondi destinati alla c.d. mini-naja (ovvero tre settimane di «servizio militare» per poche migliaia di giovani, voluta dall’ex ministro La Russa), per la quale nel 2010 sono stati destinati 20 milioni di euro, mentre i fondi per il Servizio civile sono precipitati dai circa 170 milioni del 2010 ai 68 del 2012.
Se poi non si vuole attingere dai fondi della difesa, si potrebbe utilizzare una parte della quota dell’otto per mille destinato allo Stato: la legge prevede infatti che quei fondi debbano essere destinati ad interventi straordinari in ambiti definiti (fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali), e non sarebbe quindi impossibile destinare parte di essi a progetti di servizio civile che operino in detti ambiti. In più, va ricordato che in anni recenti una quota di detti fondi è stata trasferita alle spese ordinarie (nel 2004, ad esempio, essa è stata utilizzata per finanziare le missioni militari all’estero): e ciò potrebbe dunque essere fatto anche per il Servizio civile.
Tutto ciò dovrebbe comunque passare, come si è detto, per la definizione di un contingente fisso di giovani, non limitabile di anno in anno: passaggio necessario anche per dare stabilità e certezze a un mondo (soprattutto il terzo settore) che investe energie e risorse per predisporre progetti, organizzare attività di formazione e quant’altro, e che quindi non può dipendere ogni anno dalle decisioni contingenti della politica.
La seconda strada che si prospetta è quella di far morire il Servizio civile nazionale e lasciare il tutto in mano alle regioni: in questo caso, ciascuna farà quello che vorrà, e nessuno sarebbe in grado di garantire alcuna sicurezza né agli enti né ai giovani.
In più, i servizi regionali saranno verosimilmente rivolti al perseguimento di altre finalità (pur meritevoli), diverse da quell’idea di fondo per la quale il Paese ha bisogno non soltanto di chi lo «difende» con le armi e con l’uso della forza, ma anche dell’impegno di giovani che decidono di spendere una parte della propria vita per migliorare quella degli altri e per imparare a essere più attenti e solidali una volta divenuti adulti.