Vita Chiesa
Salute mentale, l’impegno della Chiesa per una cura integrale del malato
Nel mondo è allarme depressione: secondo l’Oms nel 2015 sono stati 788 mila i suicidi legati a sindrome depressiva di cui nel 2020 soffriranno 322 milioni di individui, nessun Paese escluso, ma le proiezioni dicono che i disturbi psichici potrebbero aumentare in modo proporzionalmente più alto rispetto alle patologie cardiovascolari. E l’Italia non è da meno. «La salute mentale – avverte don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della salute – è un’emergenza nazionale e lo sarà sempre più. Nel nostro Paese le patologie psichiatriche stanno diventando la prima causa di disabilità». Nel 2015, secondo il ministero della Salute, i pazienti psichiatrici assistiti dai servizi specialistici sono stati più di 700 mila, il 54,4% dei quali di sesso femminile. Oltre il 66% del totale ha più di 45 anni. Sono 183 i dipartimenti di salute mentale nel Paese. «Ma non bisogna dimenticare – aggiunge don Angelelli – i giovani feriti dalle ludopatie o i malati di gioco di azzardo patologico, più di 800 mila», e «il gravissimo disagio delle famiglie, molte delle quali faticano a sopportare le spese sanitarie e non di rado rinunciano alle cure necessarie». Per il direttore dell’Ufficio Cei è «urgente dare risposte concrete alle persone malate e alle loro famiglie in termini di percorsi di cura, accompagnamento e sostegno. I passi ad oggi compiuti non sono sufficienti» mentre è ancora forte lo stigma sociale che causa isolamento e ulteriore sofferenza.
La risposta della Chiesa. Nel settembre 2014 la Chiesa italiana ha voluto dare voce a questa emergenza, anche a seguito della ritardata chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), con un importante convegno e la decisione di istituire presso l’Ufficio Cei il Tavolo nazionale per la salute mentale di cui oggi fanno parte, oltre a don Angelelli, il suo predecessore padre Carmine Arice e quattordici autorevoli professionisti del settore.
«La Chiesa – osserva don Angelelli – troppo spesso ha una funzione vicaria nei confronti dello Stato, quella di rivestire un ruolo o svolgere compiti che altri non prendono in considerazione. I suoi compiti sono altri, ma di fronte all’uomo che soffre mai volgerà lo sguardo da un’altra parte».
Di qui il Tavolo, «esempio di risposta integrata che continuerà il suo cammino verso il bene concreto della persona, realizzando anche percorsi di formazione e integrazione». Di qui anche l’impegno operativo con oltre 160 Residenze sanitarie assistenziali di ispirazione cattolica che si occupano di persone affette da disturbi mentali, oltre agli ospedali dotati di reparti per la cura di malattie psichiatriche in fase acuta. Di matrice ecclesiale sono anche l’Irccs Fatebenefratelli di Brescia (per adulti) e quello per la psichiatria infantile dell’ Istituto Medea a Bovisio Parini, in provincia di Lecco, della Fondazione La Nostra Famiglia. Accanto a queste realtà, sempre più diocesi hanno attivato centri di ascolto e servizi di accoglienza per il disagio mentale.
Cura integrale della persona. «Comunità capaci di ascolto, accoglienza, ‘relazione terapeutica’, compassione vera, che aiutino il malato a superare il senso di inutilità e di peso sociale», l’auspicio di don Angelelli, in linea e in sintonia con padre Arice. Occorre inoltre «favorire la ricerca scientifica, dando ad essa le necessarie risorse». In questo ambito, «cura adeguata significa anche prevenzione, promozione della qualità di vita e di buone relazioni umane per un assetto almeno vivibile dell’esistenza». Strategico «umanizzare i percorsi di cura» ma «l’obiettivo di una formazione integrale degli operatori è ancora lontano». Eppure si tratta di una formazione necessaria perché, sostiene il direttore dell’Ufficio Cei, la cura integrale della persona richiede «uno sguardo su tutto l’uomo nelle sue dimensioni fisico-biologica, psichica, sociale, culturale e spirituale».
Ecco allora il ruolo dell’accompagnamento pastorale: anche i malati psichiatrici «hanno bisogno di cura spirituale». Talvolta, afferma don Angelelli, questo potrà avvenire in modo «più riservato», altre volte è bene che partecipino alla vita «ordinaria» della comunità ecclesiale. E sarà «un dono reciproco»: per il malato che non si sentirà ghettizzato e per la comunità cristiana che «prendendosi cura delle membra più fragili, testimonierà che nessuno è escluso dal corpo ecclesiale». Del resto, l’interrogativo del sacerdote, «come chiedere alla società civile di farsi carico di queste frange più deboli» se la comunità cristiana non si mostra capace di carità concreta «verso i malati più poveri, emarginati e difficili da accompagnare?».
Impegno della Chiesa, dunque, ma anche auspicio, conclude don Angelelli, che «quanti hanno responsabilità amministrative elaborino politiche sanitarie che, pur perseguendo l’efficienza dei servizi, non nuocciano ai diritti delle persone più fragili, evitino o riducano le disuguaglianze nell’accesso alle cure, valorizzino sempre più la sussidiarietà istituzionale e sociale».