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Russia, ritorno al passato?

di Romanello Cantini Ventiquattro ore dopo il massacro di Beslan, nel suo primo discorso televisivo di sabato scorso, Vladimir Putin ha detto tutto l’indispensabile che ci si aspettava davanti ad un tale orrore. Ma ha aggiunto anche qualcosa di inatteso per chi ormai pensa ad una Russia promossa a pieni voti all’esame della democrazia. Putin ha lamentato innanzitutto la debolezza della Russia e non quella sua durezza che molti invece pensano sia fra le cause dell’imbarbarimento del conflitto ceceno.

E il leader russo ha fatto riecheggiare anche una non troppo nascosta nostalgia per il passato proprio in un difficile momento in cui i russi si domandano “chi siamo diventati e dove andiamo”. Putin ha detto senza peli sulla lingua che una volta i conflitti interetnici erano “severamente repressi dalla ideologia dominante” e ha aggiunto che la Russia “ha avuto in passato il più potente sistema di protezione delle sue frontiere”.

Stranamente in tutto questo discorso dedicato alla strage perpetrata dai terroristi ceceni non è stato fatto nessun accenno alla guerra in corso nel Caucaso da dieci anni, mentre Putin ha accusato coloro che vogliono distruggere la Russia come grande potenza anche nucleare. A questa denuncia della fragilità della Russia Putin ha fatto seguire pochi giorni dopo i fatti la proposta di una riforma istituzionale che fra l’altro prevede la nomina diretta da parte di Mosca dei governatori delle repubbliche e delle regioni con l’addio di fatto al federalismo e la reintroduzione di quel ministero delle nazionalità che ricorda sinistramente l’uso che di questa carica fece negli anni Venti del secolo scorso un certo Stalin per stroncare ogni velleità di indipendenza e di autonomia all’interno dell’Urss.

Il governo degli Stati Uniti era stato il primo, appena iniziato il dramma dell’Ossezia, ad offrire a Mosca solidarietà e anche aiuto diretto, ma di fronte alle intenzioni di riforma o di controriforma di Putin è toccato al segretario di Stato Colin Powell ricordare che “si tratta di una marcia indietro dal punto di vista delle riforme democratiche”.

Per quale ragione Bush e Putin, che sembrano ora così in sintonia nel giudicare il terrorismo una guerra mondiale e nel prevedere azioni preventive contro questa minaccia mortale, possono entrare in rotta di collisione quando sia l’uno sia l’altro avrebbero tanto bisogno di alleati di fronte ai loro insuccessi solitari?

In realtà Putin non vuole solo eliminare il lassismo di una federazione russa in cui i terroristi ceceni possono comprare al libero supermercato della corruzione pubblica passaporti e patenti di guida false, ma punta anche alla restaurazione di un prestigio nazionale se non di un sogno imperiale.

Putin, minacciando di colpire i terroristi dovunque si trovino, chiede carta bianca per riappropriarsi del potere locale, ma anche per rimettere in fila, eventualmente, chi, dalla Lettonia alla Georgia, è uscito dall’ex-impero sovietico senza nemmeno ringraziarlo in passato ed aiutarlo oggi. In questa riconquista di una zona di influenza si può sfiorare addirittura la Nato che ormai arriva ai confini della Russia.

Perfino la presenza americana in quell’Iraq in passato legato da un trattato di amicizia con Mosca diventa una umiliante e pericolosa intrusione. E se non ritornerà né la dittatura né la guerra fredda, certamente non avanzerà domani né lo stato di diritto né la guerra comune contro il terrorismo.

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