Si è svolta tra le betulle del cimitero vecchio del monastero ortodosso Donskoj la cerimonia d’addio ad Aleksandr Solzhenitsyn, lo scrittore che nel 1962 con Una giornata di Ivan Denisovic raccontò al mondo i gulag dell’Unione Sovietica. Il feretro è stato deposto dietro l’altare della chiesa principale del complesso moscovita, dove riposano alcune tra le più grandi figure della cultura russa degli ultimi tre secoli. Dopo il servizio funebre e il picchetto d’onore sottolineano le agenzie di stampa moscovite il presidente Dmitrij Medvedev ha espresso personalmente le condoglianze ai figli e alla vedova dello scrittore. Otto anni di lavori forzati per motivi politici, premio Nobel per la letteratura nel 1970, esule negli Stati Uniti tra il 1974 e il 1994, Solzhenitsyn è morto nella notte tra domenica e lunedì; i protagonisti della storia recente della Russia hanno denunciato la scomparsa di un grande del XX secolo, di un coraggioso e così le gerarchie della Chiesa ortodossa di un profeta. La riflessione sull’opera e l’esperienza umana dello scrittore va oltre i confini del suo paese d’origine. In molti hanno sottolineato l’importanza di una battaglia per la libertà, contro il totalitarismo e le distorsioni del sistema sovietico. Da ricordare sono anche le delusioni e l’amarezza dell’ultimo Solzhenitsyn: tornato in patria negli anni del liberismo senza freni e dei drammi sociali che segnarono la presidenza di Boris Eltsin, l’ex dissidente denunciò un materialismo che negava l’anima russa e i valori dell’ortodossia. In una recente intervista a Radio vaticana il direttore del Centro Russia ecumenica ha ricordato il lunghissimo incontro nel 1993 tra papa Giovanni Paolo II e lo scrittore, due grandi anime slave. La grandissima fede di Solzhnitsyn ha detto padre Sergio Mercanzin – si incarnava in una concezione che dava alla Russia un grande ruolo nel mondo, anche da un punto di vista religioso: far sentire la voce di Dio nella realtà, nella società, nella politica, nella cultura, nella letteratura.Misna