TOSCANI D’ADOZIONE, Papa Gallo MBAYE

di Francesco Giannoni

Donoratico, frazione di Castagneto Carducci sulla Costa degli Etruschi: 5000 abitanti, 200 senegalesi. Molti di questi fanno parte di Jappò, associazione il cui nome significa «tenersi insieme», «darsi una mano l’uno con l’altro», che tutela i compatrioti di Senghor, offre mediazioni per eventuali conflitti di lavoro, fornisce supporto per l’integrazione, fa da tramite con l’amministrazione comunale. Papa Gallo Mbaye ne è fondatore e presidente.

Quando ci incontriamo, indossa un elegante abito bianco tradizionale. Voce gentile, poco più che cinquantenne, primogenito di sette fratelli, Mbaye è nato nella capitale del Senegal, Dakar, «come tutte le capitali, città grande e caotica». Là si è laureato in giurisprudenza, là è rimasta la moglie Mariama che, oltre a seguire i quattro figli, lavora in una Ong che si occupa dei lebbrosi nel mondo.

Mbaye partì per l’Italia all’inizio degli anni ’90 per visitare un cugino che stava a Vada. Insieme giunsero a Donoratico nel 1992 e «fummo i primi senegalesi a vivere qui».

Tornò in Senegal. Nel 1994, alla morte del padre, come primogenito di sette fratelli, divenne il responsabile della famiglia. Nel suo paese lavorò per qualche tempo presso un’assicurazione e presso l’ente che organizza la lotteria.

Non che in Senegal manchi il lavoro, quindi; ma «noi abbiamo la voglia di migliorarci: è quasi un istinto naturale, come per gli uccelli che migrano altrove quando manca il cibo». A proposito di migrazioni e di sostegni internazionali, Mbaye crede che il vero aiuto che il nord del mondo può dare agli africani sono i supporti per attingere alle notevoli risorse locali; così la situazione di debolezza dei vari popoli del continente nero non sarebbe sfruttata da industrie senza scrupoli, e la gente non finirebbe «nei “giri strani” che ci sono dietro le migrazioni».

Qui finì anche Mbaye nella speranza di trovare in Italia un lavoro e una sistemazione migliori. Pensava che nel nostro paese sarebbe rimasto temporaneamente e che sarebbe tornato a casa; invece, non è stato così.

Racconta del primo impatto con il nostro paese; fu con il clima di un giorno di dicembre: «mamma mia… Arrivi e non sai come coprirti, pensi che bastino i jeans, invece ci vuole la lana, che in Senegal non esiste. Sono stato anche ricoverato all’ospedale di Livorno per una polmonite». E poi il problema dei rapporti umani; venendo da un paese dalla vita sociale molto aperta e solare, all’inizio è stato un po’ difficile; ma «piano piano, con il mio carattere e avendo una certa cultura, sono riuscito a instaurare buoni rapporti».

Come tanti suoi connazionali ha iniziato a lavorare facendo il venditore ambulante, per accorgersi subito che non era quello che voleva. Per Mbaye il «vucumprà» non è un lavoro, è una sistemazione «tampon»: non si trova altro e allora ci si aggrappa a questo. La vendita ambulante non dà sicurezza: ci può essere la giornata sì, ma anche quella no, e bisogna mangiare tutti i giorni.

Per fortuna, però, la campagna di Donoratico ha una forte vocazione agricola: la potatura delle vigne, la raccolta dell’uva, delle olive, dei pomodori, degli ortaggi hanno dato a Mbaye numerose e frequenti opportunità di impiego e la sicurezza di guadagno. All’inizio erano lavoretti di un paio d’ore o un paio di giorni ogni tanto; ma 5-7 euro l’ora erano sicuri. In questo modo, lui e altri suoi connazionali si sono impiegati; inoltre, trovando gli accordi con le locali aziende agricole, conoscendo un po’ di gente e «con la voglia di lavorare che noi abbiamo e per cui abbiamo lasciato la nostra terra, abbiamo raggiunto subito dei risultati positivi. Con in più la soddisfazione che ora i datori di lavoro della zona sanno che i senegalesi, per la maggior parte, sono lavoratori seri».

Da queste esperienze germogliò in Mbaye l’idea di creare una cooperativa per raccogliere e organizzare i connazionali della zona impiegati in lavori agricoli. Mbaye non si ricorda precisamente la data di fondazione della cooperativa; per lui è importante, e allora sfoglia quasi con furia l’atto notarile di costituzione per cercarla: 12 giugno 2006.

I membri di Taif (nome derivato da una città della madrepatria sacra all’islamismo) al momento sono otto, però l’utenza potenziale è molto maggiore perché, ai senegalesi di Donoratico, si aggiungono quelli che vengono da altre regioni per la stagione agricola. La cooperativa attualmente opera solo nella zona dato che, mancando di autoveicoli, gli spostamenti sono difficili, ma piacerebbe raggiungere località anche più lontane per accrescere le possibilità di impiego.

Tra i suoi scopi c’è la tutela dei lavoratori, perché «qualcuno si approfitta di noi: siamo deboli o ingenui o disperati e accettiamo di lavorare anche al nero. Cerchiamo di andare dai datori di lavoro per sottoscrivere contratti regolari, poi i ragazzi li assumiamo noi come cooperativa; in questo modo tutto è in regola. La nostra qualità è tale che normalmente sono le aziende stesse a voler stipulare il contratto con noi, così sono più sicure del livello del lavoro offerto e hanno anche loro un punto di riferimento».

Sono «bellissime» le sensazioni che Mbaye prova potendo concretamente aiutare tanti connazionali. Ma, nonostante le attività e le soddisfazioni, il sogno di Mbaye è tornare a casa, e non per un paio di mesi l’anno, ma per sempre. Ed è il sogno di tutti i senegalesi. Infatti, fra coloro che risiedono a Donoratico, quasi tutti uomini, quelli che hanno portato la famiglia sono 4-5, non di più. Il percorso è sempre lo stesso: «qui cerchiamo fortuna; poi un giorno torniamo in Senegal per raggiungere mogli, figli, parenti e amici rimasti là, ad aspettarci».