TOSCANI D’ADOZIONE: Edmond VELAJ, il sindacalista ragazzino

di Francesco Giannoni

Incontriamo Edmond Velaj nella sede della CGIL in Borgo de’ Greci a Firenze. Parafrasando Cossiga, potremmo definirlo il «sindacalista ragazzino». Ovviamente auguriamo a questo giovane ventiseienne di Scutari una sorte migliore di quella toccata al giudice Rosario Livatino. Anche Velaj, comunque, stupisce per il suo mix di giovinezza, competenza e autorevolezza, oltre che per l’impeccabile conoscenza e pronuncia della nostra lingua, «una ricchezza immensa» e un grande aiuto nel suo lavoro e nella vita quotidiana.

Quel che sorprende è che non ha mai frequentato un corso di italiano che ha imparato in Albania ascoltando assiduamente i nostri telegiornali. Come fanno tanti suoi concittadini che, pur ricevendo anche i canali tedeschi o slavi, preferiscono guardare quelli italiani apprendendo così il nostro idioma. Velaj parla di un legame storico fra i due popoli; secondo lui «c’è una predisposizione degli albanesi a entrare in sintonia con gli italiani e con la loro cultura».

Per aiutare la sua famiglia di sei persone, il diciottenne Velaj, alla vigilia di Natale del 2000, partì per l’Italia con un visto turistico di 3 mesi ma con l’intenzione di rimanere anche se da clandestino. «In tutto il mio cammino, a differenza di tanti altri, sono stato fortunato: ho trovato persone comprensive e senza pregiudizi, che avevano maturato un alto livello di accettazione dell’extracomunitario; loro mi hanno dato la possibilità di entrare in sintonia con la società italiana e di integrarmi più facilmente».

Venne subito a Firenze. Dopo tre giorni dal suo arrivo (ancora la «fortuna») trovò lavoro in una falegnameria dove rimase per cinque mesi, poi in un canile il cui proprietario regolarizzò la sua posizione di clandestino.

Passò al settore edile nell’ottobre 2003; per contrasti con il datore di lavoro, si licenziò. Dubitando della giustezza del trattamento riservatogli ed essendo per natura «molto curioso», Velaj lesse quel che disponeva il codice civile in materia di licenziamento. Su consiglio di un amico, già iscritto «a un sindacato vicino a piazza Santa Croce», il 23 marzo 2004 si recò per la prima volta in Fillea (Federazione italiana lavoratori legno edili e affini) dove incontrò l’allora segretario generale della Fillea toscana Mauro Livi con cui si sfogò.

«Sapesse che bello! – racconta – Qualcuno finalmente mi ascoltava. Credo che se tutti potessero esprimere quel che sentono si cambierebbe il mondo».

Iniziò così il suo cammino all’interno della CGIL che, per l’appunto in quel periodo, cercava un immigrato che potesse occuparsi degli immigrati impiegati in edilizia (nella provincia di Firenze sono il 40% degli iscritti in cassa edile, 10-12.000, più i non iscritti e gli irregolari, per un totale di circa 15-16.000 persone); «anche questo rientra nel mio percorso fortunato: nel luogo giusto al momento giusto». Durante il periodo di prova, entrando in contatto con tante persone dagli infiniti problemi, «cominciai a capire questo lavoro e quello che poteva rappresentare per me e per gli altri». Nel gennaio 2005 fu assunto a tempo indeterminato. Dal 2006 è membro della segreteria cittadina di Fillea con le deleghe per il dipartimento di sicurezza e delle politiche dell’immigrazione.

Come sindacalista immigrato «ho forse una marcia in più per ascoltare nel modo giusto chi mi sta di fronte, non perché sia più bravo degli altri, ma perché provenendo da una cultura e da una mentalità diverse, avverto in modo naturale stati d’animo e sfumature che un italiano non riesce a percepire, e che non devono rimanere oscure». Inoltre ha vissuto sulla sua pelle i problemi di tutti gli immigrati: la clandestinità, la solitudine, la mancanza degli affetti familiari, il razzismo, l’ansia per il permesso di soggiorno, per i soldi dell’affitto, tutte esperienze che hanno «forgiato la mia personalità che sarebbe stata diversa se fossi rimasto nel mio paese».

—Dove permangono ancora quei problemi che hanno fatto emigrare Velaj che, in Albania, voleva andare all’università: «io amavo e amo studiare; studio tuttora, sono iscritto a scienze politiche». Così sarà «costretto» a restare in Italia. Da un lato parla di costrizione, dall’altro, però, c’è la progressiva presa di coscienza di avere «due case, due patrie, e di non potere fare a meno né dell’una né dell’altra».Infatti, quando torna a Scutari (un paio di volte l’anno) è contento perché rivede la sua città, la sua famiglia, i suoi amici. Ma dopo un po’, sente la mancanza di Firenze. Si è affezionato all’Italia pur essendo rimasto attaccato all’Albania. Queste sensazioni lo spaventano, sono ancora da elaborare: «non ho più una vera patria?». Ritiene però che molto di questo affetto per l’Italia sia legato alle condizioni di vita che offre il nostro paese e che mancano nel suo. E visto che sta creando tutta la vita qua (lavoro, studio, amici), «se quelle condizioni tarderanno a realizzarsi nel mio paese natale, come purtroppo immagino, non vi farò più ritorno».