Sofia, una «farfalla» che può ancora volare

Una coppia felice, quasi da fotoromanzo patinato, verrebbe da dire. Un incontro tutto sommato casuale, il classico colpo di fulmine reciproco, un matrimonio quasi da cartolina, una casa antica in centro con una splendida vista sul cupolone del Brunelleschi, ribattezzata da lei CasAmore. E poi, ben presto, un figlio in arrivo. Emozioni, gioia, felicità condivise immancabilmente dai nonni, soprattutto quando lei, Maria, viene alla luce. E cresce, vispa e affettuosa, impara a camminare e a dire le prime parole, come tutti i bambini del mondo. Finché un giorno come gli altri, a venti mesi, comincia a zoppicare.È l’inizio del calvario e a raccontarcelo, a raccontarci tutto l’amore e il dolore, la speranza e la delusione, la fede e la rabbia che da allora hanno caratterizzato i suoi giorni e quelli del marito Guido – o Guidus, come più spesso lo chiama – è Caterina. Caterina la mamma, quella parola che presto Maria, assieme a tutte le altre, non riesce più a pronunciare. Perché è affetta da una malattia genetica, la leucodistrofia metacromatica tardo infantile, di cui i genitori sono portatori sani, come spiegano i medici. Avevano una possibilità su quattro di generare un figlio malato ed è capitato. Una malattia per cui non c’è cura né speranza, ma solo il baratro di veder sparire un pezzetto al giorno di tuo figlio, la capacità di fare un certo movimento o un gioco, fino appunto alla possibilità di parlare, di stare con la testa eretta e perfino di deglutire.

Malati terminali a due anni: per i medici che diagnosticarono la malattia di Maria, tali sono, o dovrebbero essere, i bambini come lei, in balia del «mostro leucodistrofico», come lo chiama Caterina. Questa fu la sentenza, accompagnata da considerazioni pseudo-consolatorie del tipo «in fondo potete riprovarci, questa vi è venuta male ma avete tre possibilità su quattro di generare un portatore sano come voi o addirittura un figlio completamente sano, e poi c’è sempre la diagnosi prenatale…». Nel senso che se proprio andasse male, potete buttar via tutto e girare nuovamente pagina.

Caterina e Guido però di quell’assurdo consiglio non sanno che farsene. Rivogliono la loro Maria, quella che correva loro incontro per abbracciarli, e visto che la scienza medica non gliela può rendere la richiedono al cielo. Assieme al dramma di una piccola vita minata dal dolore, è questo il fil rouge di tutta la storia, narrata dalla mamma autrice con inaudita passione, nel doppio senso del termine. Passione positiva per quella vita sfuggente da riacchiappare e passione come sfinimento e consunzione di sé, con quella croce così grande da abbracciare. Le pagine di «Voa voa!» (edizioni Le Lettere, pp. 172, e 14,00) sono un commovente rincorrersi di scene e di storie, di flashback felici e di riflessioni in versi ma anche di sguardi di Maria sul mondo attraverso le parole di un suo «diario immaginario».

Colpisce la presa di coscienza di quanto solitamente si possa essere poco grati per una vita normale e felice che viene riapprezzata in pieno una volta spazzata via dal dramma. Ma colpisce ancor più la testimonianza cristiana che emerge attraverso un percorso così doloroso eppure carico di valore. Caterina e Guido, entrambi – a dire dell’autrice – «fedeli tiepidi», all’inizio, riscoprono una fede più piena mendicando una grazia che pure non arriva, almeno non nei termini richiesti e sperati.

Dai due pellegrinaggi a Medjugorje a quello della sola giovane mamma a San Giovanni Rotondo, da padre Pio, con un treno che attraversa l’Italia di notte, partendo da Castiglioncello, la casa estiva apparsa più adatta a convivere con tutte le imposizioni della malattia. E poi i rosari, la preghiera costante unita a quella di alcuni amici, soprattutto coetanei, volti disegnati nei diversi capitoli che a loro volta commuovono per la dedizione e la vicinanza ma stupiscono pure per la forte testimonianza cristiana. Tutt’altro che scontata in un mondo e in un tempo in cui si è portati piuttosto a dar per scontato il contrario.

E colpiscono anche le figure dei nonni, soprattutto quelli materni di Maria e in particolare la nonna, con preti e suore in famiglia, sempre capace di esserci con la saggezza della fede e la concretezza dell’azione discreta e costante. O la zia Isa con i tre cuginetti, tra cui l’innamoratissimo Pietro.

Un percorso attraverso il dolore non è tuttavia una passeggiata. È una lotta dura, dove la stessa fiducia in Lui a volte sembra vacillare, che diventa a volte una lotta con Dio come quella biblica di Giacobbe con l’angelo. Caterina la descrive bene quando parla dell’angosciante tempesta di gennaio 2012, che però non sfocia nella disperazione né in una rassegnazione passiva. «Quando mi dissero che Maria, la mia Maria, si era ammalata senza possibilità di guarire – spiega in quarta di copertina del libro – ho pensato di prendere Dio e di tirarlo giù dal Cielo per costringerlo a cambiare i Suoi piani. Intanto, mentre neanche me ne rendevo conto, era Lui che tirava su me, muovendo i fili del mio destino secondo il Suo solito, incomprensibile disegno. Mi dissero che quelli come Maria si chiamano “bambini farfalla”, nel senso che durano una stagione sola. Ma io, con questa mia storia fatta di amore, mostri, accettazione e perdita infinita, voglio dimostrare che con le farfalle – la mia Maria – ha in comune soltanto la bellezza».

Il libro si chiude giusto un anno fa, lo scorso marzo, con una briciola di ritrovata serenità. Un farmaco e una fisioterapia specifica sembrano allontanare lo spettro della degenerazione ulteriore, compresa l’impossibilità di alimentarsi se non in modo artificiale. La malattia appare quasi stabilizzata o comunque peggiora più lentamente. In Caterina e Guido c’è la consapevolezza di garantire a Maria, con tutto l’amore di cui sono capaci, la miglior vita possibile.

Avvenimenti recenti impongono però di passare dalla storia all’attualità, dalla recensione di un libro alla cronaca degli ultimi giorni, e per farlo corre l’obbligo di presentare meglio i protagonisti. Mamma Caterina è Caterina Ceccuti, redattrice della rivista trimestrale Nuova Antologia nonché collaboratrice de La Nazione. Maria si chiama in realtà Sofia, come svela la dedica all’inizio del libro («A Sofia, con tutto il mio cuore che è tuo. Ecco la fiaba che ti avevo promesso»), e il cambio di nome pare avere tutto il sapore di una consacrazione. In quest’ultimo anno il «mostro» le ha portato via anche la vista, ma sembrava essersi riaffacciata una speranza, con una terapia sperimentale a base di staminali somministrata a Brescia che però il Ministero della Salute e l’Agenzia nazionale del farmaco avevano bloccato per irregolarità nella convenzione tra la struttura ospedaliera bresciana e la «Stamina Foundation» del dottor Davide Vannoni. Tra ricorsi a Tar delle famiglie interessate e una delibera d’urgenza che praticamente le salva la vita, anche Sofia ottiene il diritto a una prima infusione e i miglioramenti non si fanno attendere. Ma poi il 22 gennaio il tribunale di Firenze decide per il sì alle staminali però non a quelle con protocollo Vannoni e la piccola, che di lì a poco avrebbe dovuto ricevere la seconda infusione, ricomincia a degenerare.

È la stessa Caterina a raccontare le ultime vicende su La Nazione di martedì 5 marzo. Due giorni prima, la loro presenza in tv al programma Le Iene aveva scatenato un vero e proprio tsunami di solidarietà, con tanto di appelli al Ministero per un nuovo via libera alla cura. Le Iene creano anche la pagina facebook «Ministro Balduzzi aiuti la piccola Sofia», che viene subito presa d’assalto. Attraverso twitter, Caterina grida di far presto e ringrazia di cuore per l’affetto e la solidarietà. «Secondo il “consenso informato” che abbiamo firmato a Brescia il giorno dell’unica infusione fatta a Sofia – scrive a conclusione dell’articolo su La Nazione – ne occorrono 5 per stabilizzare eventuali risultati. Il mio appello al Ministero è perché regolamenti una situazione vergognosa. Nessuno parla di guarigione, nessuno grida al miracolo. Si parla di vita e di dignità».

Il tempo del raccoltoRimasi meditabonda a pensare quante cose ci erano passate per le orecchie e per il cuore in quei mesi. Gli incontri non li contavo più, così pure le facce, le lacrime, le testimonianze di fede e solidarietà. Il dolore non era passato, perché di passaggio s’intende qualcosa che arriva e poi se ne va. Invece da noi il dolore era arrivato e basta.Ma se dovessi dire che il «mal comune è mezzo gaudio», non potrei. Il dolore degli altri non mi ha mai consolato. Qualche volta mi ha consolato vedere il modo in cui gli altri l’affrontano.Ecco per esempio, mi torna in mente un giovane babbo che avevo incontrato a Medjugorje, sul piazzale dalla nostra pensione Da Ivan. Spingeva un passeggino col suo bimbo dentro, di un anno e poco più. Pure lui era malato di una malattia metabolica molto rara e parzialmente invalidante.

Sorrideva sereno, fu lui ad avvicinarsi a me e Maria per fare amicizia, mentre il suo piccino si dimenava per colpa di un iperattivismo muscolare conseguenza del suo male. Scambiammo quattro chiacchiere e Tina, che ci osservava dalla hall dell’albergo, più tardi mi spiegò che il bambino era gemello di un altro perfettamente sano, morto due mesi prima in un incidente d’auto. Il padre era profondamente grato a Dio per avergli lasciato almeno uno dei due figli. Per questo si trovava a Medjugorje, per ringraziare. Dei suoi due gemelli, solo quello malato era sopravvissuto, e lui ne era profondamente grato perché aveva rischiato di perderli entrambi.

Quando nella vita mi è capitato di imparare qualcosa, non so perché ma mi sono sempre sentita consolata. «Sul piazzale della pensione di Medjugorje», penso spesso, «quel giovane padre mi fece sentire consolata più di vent’anni sui banchi di scuola».

Caterina Ceccuti, da «Voa voa!», p. 153