ROBERTO VOLPI: lo statistico dell’infanzia con la passione per il giallo
Questo signore di una sessantina d’anni, dai tratti fini e aristocratici, dal sorriso simpatico e beffardo, e dagli occhi miti, di professione fa lo statistico. Ha progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia ed è impegnato, fra l’altro, nell’Osservatorio sulla stampa e i minori. Ci incontriamo a Firenze, all’Istituto degli Innocenti; per la nostra chiacchierata invita a sederci su una delle lunghissime panche nell’arioso Chiostro degli Uomini, anziché rinchiuderci in una stanza.
Volpi porta ad esempio i parchi giochi: hanno una struttura tipica uguale da tutte le parti: un prato pianeggiante, nessun anfratto dove avere la possibilità di nascondersi, i giochi sono gli stessi dappertutto, e sono degli strumenti non manipolabili, a fruizione singola, ripetitivi. Questo è, secondo Volpi, lo schema inquietante che la società propone a un bambino. Tutto questo, però, è la negazione dell’infanzia. Infanzia vuol dire scoperta, manipolazione, rischio, incontro con gli altri. Normalmente è vietato introdurre nei parchi giochi, palloni, biciclette, cani; per di più genitori e nonni ripetono ossessivamente: non sudare, non ti muovere, non correre, non cadere e, soprattutto, non sporcarti (sennò la lavatrice dura fatica a lavare). Volpi è un uomo fisicamente minuto ma usa parole di ironia forte, pungente e graffiante, ma con una buona dose di ragione: il pericolo è che i bambini non crescano da bambini.
C’è una fobia per i rischi, o presunti tali, che i bambini possono correre. Non siamo più capaci di affrontare razionalmente i rischi. È chiaro che dobbiamo fare attenzione ai «grandi» rischi. Ma i bambini devono avere la possibilità di cimentarsi in qualcosa di pericoloso: cadere, sbucciarsi un ginocchio, slogarsi una caviglia, perché tutto ciò fa normalmente parte della vita.
Data l’iperprotezione cui è stato sottoposto, il bambino può non sapere entrare nell’adolescenza o dura una fatica estrema a farlo. Infatti oggi gli adolescenti si imbrancano e si imbrancano male, sono fragili, hanno coraggio solo in gruppo. «Quando ero ragazzo, io, come i miei coetanei, vivevo l’amicizia anche in gruppo ma avevo l’abitudine a usare la mia libertà in un ambito di sostanziale autonomia: e questo mi dava forza». Oggi in genere bisogna aderire al gruppo per sentirsi forti, da cui un gregarismo che non favorisce la formazione e la crescita dell’individuo.
Parlando di bambini e di figli in Italia, non si può non parlare di «mammismo». Più che un difetto della mamma italiana, è un difetto della famiglia italiana (ma anche greca e spagnola): i figli restano con i genitori molto a lungo e se ne vanno con grande riluttanza. Volpi è ossessionato dal ricordo di «a tavola tutti assieme»: è sicuramente una buona cosa, ma perché sempre? Magari il bimbo in quel momento legge, non gli va di vedere gli altri: non si cresce solo con i genitori, ma anche standosene da soli. Ed è fondamentale.
L’equivoco di oggi è credere che i problemi dei bambini si superano solo se i genitori stanno molto con i bambini, invece si cresce soprattutto stando con gli altri bambini. Si vuole fare del genitore una figura intrusiva, mentre deve essere una figura che sta un passo indietro, pronta a intervenire.
Volpi è babbo di tre figli: Irene, di 32 anni, Nicola, di 30 e Virginia, di 9. Gli chiedo un po’ provocatoriamente se come padre è riuscito a essere coerente con quanto dice e scrive. La risposta è diretta, com’è del personaggio: «Sì, credo di sì, ma ovviamente va chiesto ai miei figli». Ammette di essere stato un padre poco presente per impegni di lavoro, ma non crede che i figli ne abbiano sofferto perché quando doveva essere presente, senz’altro c’era. E poi si è sempre imposto di non imporre, di non piegare i figli alla sua volontà, la sua presenza era sempre discreta e i figli erano e sono consapevoli di poter contare su di lui.
I figli di Volpi sono usciti di casa presto, a 24-25 anni. Finiti gli studi, Irene ha lavorato come cameriera, Nicola è entrato in una tipografia; ora fanno altre cose. Ma con il babbo si sentono, si vedono, mangiano assieme, si raccontano le cose di tutti i giorni, in un rapporto di viva e feconda quotidianità.
Infatti, «ora cambio posto di lavoro. Sono uno statistico lo posso fare in tanti modi e in tanti luoghi diversi: lascio Firenze e torno a Pisa». Per la prima volta nella vita lavorativa Volpi lascia Firenze che ama molto e come prova schiacciante del suo sentimento mi confessa la sua fede calcistica: «Sono un tifoso viola sfegatato», ma la figlia Irene è juventina!…:«È un’altra dimostrazione che non sono stato un padre entrante».
Andava allo stadio, in curva Fiesole con il figlio Nicola ai tempi di Baggio: è stato un periodo bellissimo che Volpi ricorda con grande piacere, perché cementava fra padre e figlio una relazione forte. A volte questi elementi si sottovalutano: nel tifo, ovviamente quello moderato, c’è una forza sentimentale che può legare tantissimo genitori e figli. Tanti genitori con la puzza sotto al naso non si sognano nemmeno lontanamente di portare i bambini allo stadio, perché magari i figli sentono le parolacce, leggono lo striscione di cattivo gusto, assistono a episodi di violenza. Ma anche questo fa parte della vita, basta spiegarlo con calma e serenità ai figli.