ROBERTO CORSI: un «casalingo» dalla penna arguta

di Antonio Lovascio

E’ piccino, ma c’è tutto, come diceva la sua maestra a Monteloro. Ha pubblicato cinque libri negli ultimi cinque anni. Ma se nei tour promozionali lo chiamano scrittore, arrossendo si rimpicciolisce sotto il metro e 56 segnato sulla carta d’identità, nonostante il suo carattere di eterno «bastian contrario». Roberto Corsi (pensionato classe 1947, vedovo da nove anni e padre di quattro figli, uno dei fondatori di Cl in Toscana) non ne fa mistero: «Fin dalle elementari mi segnalai subito per la grande timidezza ed intelligenza. Un binomio che ha segnato la mia esistenza, nel senso che la prima ha pesantemente imbrigliato la seconda».

Ora vive a Scandicci. Ha appena dato alle stampe un’avvincente «galleria» di campioni dell’atletica. Dopo aver riversato la sua arguzia a tratti irriverente, tutta fiorentina, sui personaggi della politica, non poteva fare una scelta migliore che ispirarsi a Eddy Ottoz, Livio Berruti e Sara Simeoni per suggellare la sua vita, da lui stesso definita «una grande corsa ad ostacoli». Intervistando queste «stelle», ha scavato ben bene, come quando appunto affonda il bisturi di una satira tagliente ma rispettosa («Per me sono semplici punture di spillo») nel quotidiano «Grillo canterino» («Dal nome di una trasmissione radiofonica toscana andata in onda fino al 1970») che sforna sul Corriere Fiorentino (alternandolo ad editoriali) o su Facebook, uno strumento di internet che lo fa sentire «al centro del mondo».

Questo ormai possiamo considerarlo il punto di arrivo di Roberto. Ma la sua storia, lo avrete già capito, è ricca di colpi di scena, di recenti pagine esaltanti intrecciate con non lontani momenti purtroppo tristi, superati grazie ad una fede profonda. Una «maratona» che, comunque, merita di essere raccontata. Figlio di mezzadri delle contesse Martelli, ha vissuto la sua infanzia in una fattoria di Gricigliano: qui ora c’è un seminario di ex lefevriani che la domenica cantano messa in gregoriano. Anche lui, terminate le elementari, ha avuto la vocazione ed è entrato in seminario. Prima a Strada in Casentino, poi a Fiesole. Ma una crisi l’ha portato ad interrompere gli studi in seconda liceo. «Verrai a lavorare con noi nei campi», tuonarono papà Gino e mamma Maria. Certo questo abbandono gli creò «disagio ed un senso di isolamento». Poi, mentre la squadra per cui ancora va pazzo – la Fiorentina – si apprestava a vincere il secondo scudetto, la chiamata alle armi. Tornato dal servizio militare, fu piazzato dal parroco negli uffici fiorentini della San Paolo Film. Finché nel 1978 (l’anno in cui la moglie Patrizia gli regalò la felicità del primo figlio, Gabriele, ragioniere) approdò all’«Avvenire» con le funzioni di ispettore alla diffusione per la Toscana. Un punto di passaggio, prima di rilevare dai fratelli Giovannoni la licenza di «Cultura» e di trovare, nel 1989, la definitiva sistemazione alla Cosedi (distributrice di libri).

Nel mondo dell’editoria Roberto Corsi ha coltivato e affinato la sua sensibilità di «intellettuale senza padroni», come l’ha definito il senatore Gaetano Quagliariello. Ma le spinte maggiori alla sua maturazione, alla crescita culturale e spirituale, le ha avute dalla famiglia e da Comunione e liberazione. Partiamo dalla prima. Ancora si commuove quando parla di Patrizia (era impiegata all’Enel), il suo primo ed unico amore, che ha perso nel 2001, stroncata da un tumore. «Le ho dedicato un libretto che raccoglie alcune pagine del suo diario, molte foto e testimonianze di amici. Mi ha dato quattro figli meravigliosi. Dopo Gabriele, nel 1979 è nato Marco, che soffre di gravi disturbi di ansia e frequenta un centro per ragazzi in difficoltà a Prato. Quindi Sara, 28 anni, che ha vinto un dottorato di ricerca alla Statale di Milano in linguistica scandinava. Infine Martina (1989), al secondo anno di lettere».

La morte della moglie è stata per Roberto Corsi un brutto colpo, ma allo stesso tempo, un forzato momento di svolta: «Nel senso che – racconta – facevo il libraio fino alle 18, poi dovevo provvedere alle cose di casa – lavare i panni, cucinare, stirare – e naturalmente occuparmi dei problemi dei figli. Tra l’altro il mio rapporto con gli amici di Comunione e liberazione si stava deteriorando». Anche se Sara e Martina militano in Cl, Roberto si considera oggi «un ciellino in sonno». Con ruvida schiettezza cerca di chiarirmi il suo attuale «status»: «Nutro sentimenti di stima nei confronti di alcuni associati al movimento, ma non mi ritrovo più in quello che a me pare un circuito autoreferenziale. Ho uno spirito libero e, secondo il vecchio insegnamento giussaniano, sono più attento a cogliere quello che di buono c’è nelle persone. Una certa difficoltà è acuita anche dall’approccio alla politica, che giudico sovente puramente mercantile». Il suo accostamento a Comunione e liberazione risale al 1970. Quando guidavo la redazione fiorentina di Avvenire, mi divertivo a punzecchiarlo sulla contrapposizione con l’Azione cattolica di Vittorio Bachelet (ucciso dalle Br nel 1980, dopo Moro), di Mario Agnes, Alberto Monticone, Rosy Bindi, Dino Boffo, Alberto Migone e Umberto Santarelli, grandi figure del laicato cattolico.

«A Firenze – ricorda Roberto – quelli erano i primi anni di vita di Cl. Per me che venivo da un’esperienza di solitudine, quella è stata una scossa molto forte, anche perché i rapporti erano assai stretti ed intensi. Il capo fiorentino era Enzo Arnone. Poi c’erano Maurizio Bellucci e Francesco Baldi, entrambi architetti. Io abitavo con loro in un appartamento di via della Chiesa, a pochi metri dalla casa di Giovanni Pallanti, in via Santa Maria. Lì ho incontrato don Bruno Gori. Poi sono venuti don Silvano Seghi e don Pierfrancesco Amati, come pure Lele Tiscar e Paolo Pecciarini. Loro erano studenti universitari, io ero l’unico che lavorava. Quindi ho potuto prendere subito parte alle vicende nazionali di Cl e all’annuale Meeting di Rimini. Ho conosciuto personalmente don Giussani, don Scola ora cardinale e Patriarca di Venezia, Roberto Formigoni e Rocco Buttiglione, che quando mi vedeva diceva: «Te, icché tu fai costì». Ho un po’ allentato dopo il matrimonio».

Morta Patrizia, trovandosi sulle spalle tutta la responsabilità di una famiglia «pesante», ha deciso di prendere le distanze dal movimento in maniera più netta. «Ho dovuto concentrarmi sui miei figli e sul lavoro di libraio. Questo mi ha dato nuova energia, che ho canalizzato nella scrittura. Le gratificazioni ricevute hanno avuto benefici influssi anche sugli equilibri familiari». La passione per la lettura dei quotidiani era nata da tempo, quando ogni giorni su Tuttosport seguiva i reportages, i commenti ed i servizi di firme allora in voga, come Ormezzano e Caminiti. Invece quella per la scrittura ha incominciato ad esprimerla nelle lettere alla «Discussione», che via via sono diventati articoli e quindi editoriali. Ma dopo un po’ non si ritrovò più nella linea del settimanale Dc. Proprio l’eutanasia democristiana e la tempesta di Tangentopoli, hanno provocato il graduale distacco di Roberto Corsi dalla politica: «Resta un mio grande interesse, ma quella attiva proprio non è per me. Ho fatto qualche tentativo maldestro: mi manca lo stomaco adatto. Soprattutto mi pare non esista più una classe dirigente di spessore, come ho cercato di spiegare nei miei libri. Quasi sempre i politici sono troppo permalosi per capire la mia sottile ironia. Se guardo al passato, l’esperienza di La Pira è stata unica, ma non ha lasciato eredi ed i litigi tra i diversi suoi discepoli (veri o sedicenti) ne sono una conferma. Tra i protagonisti della vecchia guardia Dc toscana ho un ottimo rapporto con il senatore Ivo Butini: vado spesso a trovarlo, ne ascolto volentieri le analisi interessanti e lucide». Ma per un cattolico ha senso fare politica oggi? «Mi sembra difficile che anche i giovani trovino sufficienti motivazioni. Poi, come dice il vescovo di Prato, monsignor Gastone Simoni, i cattolici che fanno politica sono pochi, divisi e deboli. Non riescono più a incidere nel rinnovamento dello Stato».

Così si spiega la sua nuova scelta di campo. È grato a Paolo Ermini per averlo chiamato a collaborare al Corriere Fiorentino, mettendolo alla prova come editorialista. Ruolo che gli ha dato la carica emotiva per scrivere ancora due libri e non mancare all’appuntamento quasi quotidiano con il «Grillo canterino» anche su Facebook. «Io cerco sempre il rapporto con i lettori. Tante volte telefono a qualcuno per segnalare quello che ho scritto: penso che faccia loro piacere di aprire un confronto, da cui può nascere un’amicizia».

Dalla politica all’atletica leggera«Mai avrei pensato di fare un libro sull’atletica – spiega Roberto Corsi – ma lo spunto mi è venuto proprio da Facebook, sul quale mi hanno chiesto amicizia prima Eddy Ottoz e poi Sara Simeoni. È scoccata in me la scintilla, come quando da bambino all’amore per la Fiorentina univo la passione per il ciclismo: nel cortile della nostra fattoria rincorrevo i tacchini, al collo dei quali attaccavo un cartellino con il nome dei corridori del momento: Gaul, Nencini, Pambianco, Defilippis, Anquetil, trasformando un lieve pendio nella radiocronaca del Gran Premio della Montagna».

Nel giro d’Italia alla riscoperta dei volti più o meno noti dell’atletica, la «tappa» che più in lui ha lasciato il segno è stata quella in cui ha conosciuto e subito familiarizzato con Gabriella Dorio, sotto l’altopiano di Asiago: «Gabriella ha vinto i 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles. Esprime bene la cultura contadina e cattolica del suo Veneto. È un bell’esempio anche per la scala delle priorità che si è posta: prima la famiglia, poi l’atletica ed il resto. Ha due figli che si stanno cimentando pure loro con le piste rosse».

Stavolta Roberto Corsi è andato un po’ controcorrente. Ha scelto lo sport (che comunque gli aveva già ispirato deliziose interviste alle «vecchie glorie» viola) abbandonando momentaneamente il suo «pallino»: la politica. Una rotta intrapresa nel 2005 (mentore Alberto Brasioli: un’amicizia grande grande, pari forse a quella che legava Roberto a Graziano Grazzini) quando con «Il lucignolo che fumiga» ha aperto uno squarcio nella crisi della leadership, scoprendo però fuochi fatui: «Tanto per citarne alcuni: Mariotto Segni, Irene Pivetti, Leoluca Orlando, D’Antoni, Cofferati, Follini. Che, come meteore, si sono spente rapidamente in quella lunga Quaresima». «Il lucignolo» ha avuto qualche recensione positiva. «Però mi mancava sempre un giornale su cui scrivere, perché dentro di me ho sempre sentito pulsare i ritmi del cronista; rimaneva forte il desiderio di descrivere e commentare i fatti della politica e di costume. Allora ho inventato le “Lettere al cestino”, facendo così il mio secondo libro, “Lealtà vo cercando”».

Visto che la formula funzionava, Roberto Corsi ha continuato con quelli che lui chiama «messaggi in bottiglia», da cui è nato il terzo volume, «Anoressia della memoria». «Per non dare connotati troppo negativi ai miei libri – aggiunge Roberto – ho inserito “dialoghi” con personaggi magari non di primo piano o famosissimi, ma che mi sembrava avessero qualcosa da dire. Ad esempio padre Romano Scalfi, l’apostolo della Russia; il ritrattista di santi padre Antonio Sicari; o Eugenia Roccella, una femminista “sui generis”».

Con alle spalle quasi un anno di collaborazione al «Corriere fiorentino», nel 2009 Corsi si cimenta in un altra performance della sua ficcante satira politica, con «Facebook – Figure e figuracce della decadenza». Lo dedica alla memoria della sua «piccola grande mamma Maria», con una stimolante e intima prefazione di Umberto Folena, giornalista di «Avvenire», militante nell’Azione Cattolica, fiorentino di nascita e trentino di adozione, che con Roberto si colloca tra gli «irregolari», «fuori dai cori, fuori dalla truppa».