RENZO ROSSI: Il prete dei lontani
Ha ottant’anni, compiuti lo scorso 31 agosto, ma un’energia esplosiva e contagiosa. Ne è consapevole lui stesso. «Vivo le stesse impressioni, le stesse allegrie, le stesse gioie di quando avevo 30 anni, sempre nella speranza di qualcosa di nuovo, ogni giorno».
La sua è una vocazione precoce, come era normale un tempo. Il padre è un netturbino di idee socialiste. La mamma, invece, è una cattolica fervente che lo apre alla fede. In seminario, dove entra a 11 anni, è compagno di studi di don Lorenzo Milani e del cardinale Piovanelli, anche se loro sono un anno più avanti. Prime esperienze pastorali a Montelupo e poi a San Gervasio, la parrocchia dello stadio, dove porta i ragazzi a vedere la Fiorentina (della quale sarà per alcuni anni il cappellano). Poi è a Rifredi accanto a don Giulio Facibeni, il fondatore dell’Opera Madonnina del Grappa. La strada è già tracciata. «Molto spesso noi preti si pensa solo a quelli che vengono in chiesa», spiega don Renzo. «Invece sentivo il bisogno di avvicinarmi ai lontani, in un rapporto di amicizia, senza fare propaganda religiosa, per essere il prete un po’ di tutti».
Così nel 1952 si lancia in un’esperienza particolare: il cappellano di fabbrica. La direzione dell’Italgas fu ben contenta di questa presenza. Non così i lavoratori, in gran parte comunisti e mangiapreti. La commissione interna gli disse di no. «Non siamo bambini, non abbiamo bisogno di un prete». Ma lui non si scoraggia. Per sei mesi, una volta alla settimana, è davanti al cancello a salutarli. Gliene dicono di tutti colori, «ma come l’acqua a forza di battere sfonda anche il marmo, così si creò un rapporto di amicizia» con molti di loro. Una volta, durante uno sciopero, lo videro per strada e se lo portarono di peso in mezzo al corteo. «Camminai per un quarto d’ora in mezzo alle bandiere rosse racconta . Quando si arrivò vicino all’arcivescovado dissi loro: Ragazzi, lasciatemi libero, perché se passo con voi sotto le finestre del Cardinale mi scomunica».
Ma il cardinale Dalla Costa aveva grande fiducia in lui, come dimostrerà nel ’58, durante la crisi della «Galileo», che voleva licenziare 900 operai. Alcuni operai si rivolsero a lui per avere il sostegno della Chiesa fiorentina. «Ottenni l’udienza. Il Cardinale ci pensò e poi disse: Cosa devo fare per loro? Io gli risposi: Se lei riuscisse a scrivere un documento sarebbe l’ideale. Il Cardinale ci pensò un po’ e poi mi disse: Pensa te a prepararlo poi me lo porti stasera e io lo firmerò». Don Renzo con alcuni sacerdoti suoi amici scrisse il testo che la sera presentarono al Cardinale. «Tolse una frase, un aggettivo, una virgola, ma sostanzialmente l’accettò», firmandolo come gli chiedeva don Renzo, mentre l’ausiliare Florit, lo invitava a non farlo. «Tutta l’Italia parlò di un vescovo che aveva avuto il coraggio di parlare in difesa degli operai e contro gli industriali. E risolse il problema perché la fabbrica non fu chiusa».
«Vivere in mezzo a comunisti, atei, o marxisti racconta ancora don Renzo mi fece scoprire un mondo nuovo di gente che cerca la verità e il bene e mi nacque il desiderio di andare in missione. Volevo andare in mezzo ai poveri dell’India, specialmente a Calcutta, oppure in Africa, in Tanzania. Quando lo dissi al cardinale Florit prima mi disse di no in modo assoluto, poi accettò che potessi partire però a condizione che andassi in Brasile».
Lasciare Firenze non fu facile. Per sostituirlo nei suoi incarichi ci vollero cinque preti. Sulla nave che da Genova lo portò in Brasile pianse a lungo. Era il 19 ottobre 1965. Il 6 gennaio 1966, con don Paolo Tonucci si insediò nella parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe 130 mila anime), nel poverissimo quartiere di Alto do Peru, a Bahia. Qui incontra il benedettino Timoteo Amoroso Anastacio, un «profeta» della Chiesa brasiliana, morto a 84 anni nel 1994, ispiratore del gruppo Mosè, che riunisce le forze cattoliche più vive di Salvador. Nel ’70 lo raggiunge da Firenze don Sergio Merlini e nel ’74 comincia quasi per caso il suo apostolato nei carceri brasiliani. Superando forti diffidenze, si fa amico di tanti prigionieri politici. In particolare seppe conquistarsi la fiducia di un condannato a morte, Theodomiro Romeiro do Santos. «L’arrivo di Renzo, la sua vicinanza alle persone racconta oggi Theodomiro fu veramente un fatto eccezionale per la vita del carcere, qualcosa che ha modificato profondamente i nostri rapporti anche con certi settori della Chiesa. Ha accompagnato la liberazione di quasi tutti i prigionieri politici, aspettandoli fuori dal carcere e aiutandoli al loro reinserimento nella società».
Don Renzo non lo fa per ideologia, ma per scelta evangelica: essere vicino a chi soffre. La sua fedeltà alla Chiesa è granitica. Anche se ne vede pecche e rughe, continua ad amarla e a difenderla. «Sia in Italia che in Brasile ammette ho avuto molte accuse, o di essere comunista o di partecipare alla guerriglia o di essere troppo operaio, o troppo tifoso della Fiorentina Ho cercato di dare tutto me stesso, la mia pochezza, la mia bischeraggine, il mio modo di essere. Ormai a 80 anni posso dire che ho ricevuto immensamente di più dagli altri di quello che io abbia donato agli altri».
Nella foto, tratta dal documentario di Benedetto Ferrara, don Renzo Rossi a Bahia
Viene ordinato sacerdote l’11 luglio 1948. I primi due anni è curato a Montelupo Fiorentino e poi per un breve periodo a San Gervasio. Verso la fine del’52 è curato a Vicchio di Mugello dopo essere stato in predicato per la vicina Barbiana, dove invece finirà l’amico don Milani. Sempre nel ’52 inizia l’attività pastorale all’interno della fabbrica «Italgas», di Firenze, e dal ’55 anche in altre aziende fiorentine, dopo il passaggio alla parrocchia di Rifredi, accanto a don Giulio Facibeni. Dal ’60 fu parroco di Porto di Mezzo, a Lastra a Signa.
Nell’ottobre del 1964 maturò l’idea di andare in missione. Ricevuto qualche mese dopo il sì del suo arcivescovo, don Renzo si preparò alla partenza studiando il portoghese e i problemi dell’America Latina prima a Verona e poi a Roma. Fu lì che conobbe don Paolo Tonucci, della diocesi di Fano, con il quale partì per la parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe, tra i quartieri di Sao Caetano e Fazenda Grande, nella capitale di Bahia. Il 29 ottobre 1985 riceve il titolo di cittadino onorario di Salvador.
Nel 1988 il cardinale Piovanelli chiede che uno dei due sacerdoti fiorentini rientri in diocesi per arricchirla con l’esperienza fatta in Brasile. Don Renzo spera che sia don Sergio Merlini, che lo aveva raggiunto nel 1970, a decidere di tornare. Ma alla fine capisce che tocca a lui e pur con dispiacere, lascia Bahia il 28 gennaio 1989. A Firenze riceve la parrocchia di San Michelino Visdomini, che era stata del suo direttore spirituale don Bensi. Ma ci rimarrà meno di due anni.
Nel ’91, dopo la defezione di due sacerdoti che lo avevano sostituito in Brasile, chiede di ripartire per Bahia. Il 5 dicembre 1995 l’Assemblea legislativa dello Stato gli concede la cittadinanza di Bahia. Nel 1997 i medici, preoccupati per il suo cuore, gli impongono di rientrare in Italia, dove si mette a disposizione della diocesi. Ma, nonostante l’età e i problemi del cuore, nessuno lo riesce a tener fermo e, oltre a diversi viaggi missionari (anche in Vietnam e Laos) ogni anno per alcuni mesi va ad insegnare teologia nel seminario San Pio X di Maputo, in Mozambico.