MARIO MODESTINI, Una vita per l’arte
di Antonio Degl’Innocenti
Il Bel Paese è certamente conosciuto per le sue bellezze, opere, storia e cultura che lo circonda nonché per gli uomini che lo hanno reso tale. Ed è proprio grazie a queste figure che l’Italia di oggi, ed in particolare il suo patrimonio artistico, hanno trovato ampio spazio fuori dal paese e dal continente. Forse poco, però, si è parlato di alcune figure che, oltre a doti personali, hanno esportato quell’italianità propria della bellezza e della passione per l’arte. Mario Modestini rappresenta, in sintesi, una delle figure più singolari del 900 italiano e a quanto pare, il più grande restauratore del secolo, come spiegava in una recente intervista ad «Architectural Digest» il sig. Eugene V.Thaw antiquario e collezionista di New York (membro onorario del consiglio del MoMa e Metropolitan museum of Art nonché presidente della Pollock-Krasner Fondation).
Nato nel 1907 a Roma in via Margutta (la via degli artisti), Mario fu da subito attratto dal mondo dell’arte vista la grande tradizione di famiglia e un po’ da autodidatta ed un po’ di corsi serali lo portarono ad apprendere, al meglio, l’arte del restauro. Il suo primo lavoro, e di notevole importanza, fu il restauro delle opere conservate nella galleria Rospigliosi di Roma per spostarsi, successivamente, a San Paolo del Brasile e a Firenze. Un uomo che amava l’arte, la bellezza e la sua armonia non poteva certo rimanere immune di fronte alla città rinascimentale per eccellenza e proprio qui, nelle campagne fiorentine, alle porte della città ma immerso nel verde collinare del Chianti acquistò una casa. E proprio qui, probabilmente, ebbe luogo il lavoro più importante di Mario in Italia e con precisione alla galleria Bonaccossi-Corsini. Nonostante tutto si è certamente parlato poco di lui, sia nella città fiorentina che in quella romana, senza lasciare un ricordo, un omaggio alla sua memoria. Mario amava il suo paese, la sua storia, la sua tradizione ma forse questo paese tanto amato non aveva saputo e non ha saputo rispondergli neanche dopo la sua scomparsa avvenuta nel gennaio del 2006.
Non passò inosservato invece negli Stati Uniti, dove Mario lavorò per la maggior parte della sua vita per conto della «Kress Foundation», curandone le oltre 2000 opere. Opere di portata internazionale, come ricordava l’edizione americana del «National Geografic» del dicembre 1961 e le varie edizioni del «New York Times». Tintoretto, Canaletto, Tiepolo, Paul Rubens, El Greco, Vouet, Tiziano, Bellini, Van Dyck sono alcuni dei nomi dei maestri dell’arte sulle cui opere Mario lavorò e probabilmente acquistò autenticandole. La «Fondazione Kress» nasceva da un’idea di Samuel Henry Kress, un facoltoso commerciante nato nel 1863 in Pennsylvenia. Nel corso della sua vita visitò le più importanti gallerie d’arte europee, e così crebbe in lui l’entusiasmo per l’arte. Ben presto, Samuel Kress creò una sua collezione circondandosi di opere di importanti artisti italiani, così che gli americani potessero studiare l’arte italiana. Il suo intento originario era di creare una galleria pubblica a New York. Ma quando il suo piano prese forma per la «National Gallery of Art» a Washington, pensò di mettere i tesori da lui collezionati a disposizione di coloro che ne fossero stati interessati. Iniziò quindi a comprare opere da privati per venderle o donarle ai musei e alle gallerie d’arte. A questo progetto partecipò attivamente Mario. Da qui un’ascesa incredibile per un uomo di grandissime doti che nelle Americhe trovò gli spazi adatti per dare sfogo alle sue capacità e passioni portando nei più svariati musei d’America opere del calibro di Raffaello, Velazquez, Rembrant, Manet, Monet, Van Ghog, Cezanne, Goya fino all’acquisto ed autenticazione di un Leonardo da Vinci. La «Ginevra de’ Benci», il primo dei tre noti ritratti di donne dipinte da Leonardo. La famiglia regnante del Principato del Liechtenstein, che ne era in possesso da secoli, lo mise in vendita, e Paul Mellon e la National Gallery spedirono Mario a Vaduz per esaminarla. Egli concluse non solo che era autentico, ma che la sua stessa vernice scolorita leggermente era accettabile, che toccarla poteva essere troppo e quindi avrebbe potuto alterare l’opera.
Nel 1967 con il record di tutti i tempi, cinque milioni di dollari, Mario acquistò la «Ginevra» denominata successivamente «America’s Mona Lisa». Da qui commissionò la progettazione di una valigetta che poteva simulare la temperatura e l’umidità del vino nella cantina del castello, dove l’immagine era stata immagazzinata, e mantenerla tale per 12 ore; tempo necessario per arrivare da Ginevra alla «National Gallery», dove una stanza con la stessa temperatura e l’umidità era stata preparata.
Mario acquistò un biglietto di prima classe su Swissair sotto il nome di «Signora Modestini», ma la signora in questione era in realtà la valigia con la «Ginevra», situata accanto al suo sedile con la cintura intorno. Quella notte è diventato l’unico dipinto di Leonardo nell’emisfero occidentale. «Abbastanza per coincidenza raccontava Eugene V.Thaw mi capita di sapere qualcosa su questo viaggio. Jocelyn, la figlia di Rush Kress (fondatore della Krees Foundation), mi ha detto una volta come, camminando su un volo New York-Zurigo, è stata sorpresa nel vedere l’uomo che aveva ripristinato tutte le sue foto di famiglia, seduto, ammanettato ad un pezzo di bagaglio.Che cosa hai lì, Mario? Un Leonardo? e lui ha detto, sorridendo,effettivamente, Jocelyn, lo è». Una mano incredibile, un occhio clinico ed un profondo amore per l’arte erano gli ingredienti di questo «maestro».
Dopo tanti anni, il fumo di candele, il tabacco, il caminetto e la fuliggine avevano coperto l’urea del dipinto e non restava che consegnare l’opera a Mario. L’intenzione degli acquirenti era quella di restaurare l’opera e venderla.
Al fine di facilitare il lavoro di vendita, venne inviato allo studio di Mario il più grande esperto americano di Goya, Miss Eleanor Sayre, che è stata, tra l’altro, la nipote di Woodrow Wilson.
Aveva sempre dubitato su questa immagine, dove insisteva a dire di non vedere la trasparenza dai bordi delle figure, che era caratteristica di Goya. «Questa donna è stata colei che ha visitato i musei americani e una sua nota negativa segnerebbe ogni vendita».
Mario ha iniziato a pulire il dipinto e quando lei ha visto l’aura scomparsa ricomparire si è inginocchiata e ha quasi baciato la tela dicendo: «è una Goya: meraviglioso». Un’arte perduta la definiva Eugene, quella del restauro. «Adesso è nelle mani di persone che non necessariamente amano o comprendono la pittura. Possono essere chiamati per dire tutto sulla chimica e la scienza, ma non sanno veramente perché un Tiziano o Velazquez o un Rembrant sono quello che sono. La grandezza di Mario era quella di essere in perfetta sintonia con la sensibilità dell’artista e poteva interpretare la sua intenzione. Voglio dire, un dipinto è una modalità di espressione e se non esprime la stessa cosa dopo il restauro, l’opera è stata violata o distorta in qualche modo».
La moglie di Mario, Diane, lei stessa un’ottima restauratrice che insegna presso il Centro di Conservazione dell’Istituto di Belle Arti presso la NYU (New York university) ha passato molti dei segreti di Mario ai suoi studenti. Non ultimo il racconto di una visita fatta quando, a fine degli anni’80, era alla «National Gallery» di Londra, che ha una storia di radicale pulizia di capolavori.
Dopo un visita, Mario dichiarò che molte delle immagini erano state ingannate senza pietà; «tutto il mistero e la poesia se ne sono andate da loro» e si mise a piangere. «Per favore mi porti fuori di qui», esclamò Mario, lei lo accompagnò in albergo, dove pianse per una mezz’ora e, scuotendo il capo, diceva: «Cosa ho visto! Cosa ho visto!».