LUIGI GIUNTINI: Il lucido narratore dei lager militari

di Graziella Teta«L’ adunata di rigore il sabato nel campo sportivo, marce notturne e saggi ginnici, la propaganda pressante, i giornali del regime inculcavano l’idea che eravamo una grande nazione, mentre dalla radio si capiva che le cose non andavano bene sul fronte occidentale, in Grecia e anche in Africa. Si stava piuttosto male e ci si consolava pensando che almeno i nostri alleati tedeschi vincevano. I giovani andavano volentieri “a fare un servizio alla Patria”. Loro partivano e le mamme piangevano. La mia ha trascorso una notte intera per ricucire i bottoni sulla mia divisa. Non avevamo mezzi e possibilità per capire davvero cosa stava accadendo».

Istantanee di ricordi di un giovane degli anni Quaranta: Luigi Giuntini, nato a Ponsacco (Pisa) l’8 gennaio 1921. A 20 anni, nell’ottobre 1941, è arruolato nella Regia Aeronautica. Viene catturato dalle truppe tedesche all’indomani dell’Armistizio (8 settembre 1943) nei pressi del piccolo aeroporto di Boscomantico (Verona), quindi internato in Germania in diversi campi di prigionia e sottoposto al regime di detenzione come appartenente agli IMI (Internati Militari Italiani). Il 14 aprile 1945 viene liberato a Pössneck (Turingia) dalle truppe della Terza Armata statunitense alla guida del Generale George Smith Patton. Riuscì fortunosamente a tornare in Italia nel luglio del 1945.

Solo di recente, il professor Luigi Giuntini, 90 anni compiuti, una vita dedicata all’insegnamento, si è deciso a liberare il fiume di ricordi e immagini di quel periodo, fissate in un manoscritto custodito gelosamente per oltre mezzo secolo. Ormai quasi consunto il testo originale, lo ha fatto trascrivere al computer dal figlio Benedetto. Il suo diario non è solo un documento di valore storico: ha la forza evocativa della testimonianza diretta di chi ha vissuto sulla propria pelle l’orrore della guerra, la fame nera, la paura che negava ogni speranza, la dura prova della prigionia, il ritorno alla vita e alla dignità di uomo. Un memoriale scritto giorno dopo giorno, dalla cattura alla liberazione, per raccontare gli eventi ma anche per descrivere stati d’animo e sensazioni, suoi e dei compagni di sventura. Un documento prezioso nato da una circostanza fortuita: «Prima di cadere nelle mani delle truppe naziste – racconta Luigi Giuntini – ebbi l’opportunità di conservare, nel mio poverissimo zaino, un brogliaccio che, nella mia squadriglia, serviva per annotare i voli quotidiani ed altre operazioni ad essi attinenti». Ciò favorisce nel giovane militare «l’intenzione, tenace e un po’ fanatica di scrivervi, fino a quando le circostanze me lo avrebbero permesso, tutto quello che a me e intorno a me accadeva». Ma che cosa lo ha spinto ad affrontare, riuscendo a portare a termine, l’impresa «documentaristica» lo rivela lo stesso autore, nella premessa del diario: «Ero animato da ferrea volontà e impegno quasi certosino di scrivere, giorno dopo giorno, su fatti e persone, anche quando ero stanchissimo e tormentato da una fame inimmaginabile, confortato dalla certa intuizione di essere umile testimone di un’esperienza straordinaria. Questo, dico, era lo stimolo più grande che percepivo; più scrivevo, più avvertivo di conservare ostinatamente un barlume della mia umanità, e la prova provata della palese, organizzata crudeltà, che ci riservavano i nostri ottusi e disumani carcerieri».

Racconta: «Per lunghi, lentissimi giorni, mi trovai a marcire prima in un enorme Stammlager, poi in altri più piccoli ma non meno deprimenti e capaci non soltanto di trasformare gli uomini in bestia ma, a me sembra un’affermazione incredibile e paradossale, di mutare le bestie in bestie ancor più feroci alla mercé di una guerra senza quartiere per la sopravvivenza. In questi lager mancava tutto, tranne l’affetto degli amici, pochi ma fedelissimi, e il tempo rubato sempre al sonno e al riposo per annotare, nei minimi particolari, fatti, dialoghi, situazioni, umori, ambienti, persone. Questo facevo, sebbene alcuni miei cari compagni spesso mi suggerissero di farla finita di descrivere i deprimenti giorni di quella vita disperata». Anni dopo, riprende in mano quel brogliaccio per riportarlo in un ordinato manoscritto «per correggerne soprattutto l’aspetto formale che, a quel tempo, nella fretta e nell’assillo delle situazioni improvvise (trasferimenti, disorientamento psicofisico), non avevo avuto la possibilità di emendarne gli errori». Luigi Giuntini non nasconde che «la trascrizione di questo diario è stata lunga ed alterna, perché, lo dico senza vergognarmene, rileggendo l’amara esperienza di quei giorni, mi prendeva un’angoscia tale che, vincerla, mi era praticamente impossibile. Perciò sospendevo la trascrizione per riprenderla in altro tempo, cercando di soffocare emozioni destate dai ricordi della triste avventura, che stavo rivivendo».

Giuntini tiene ad affermare «che tutto corrisponde alla pura verità. Del resto non ero un politico eccellente, né uno di quei numerosi personaggi che avevano goduto lucrosi privilegi all’ombra protettiva di un regime ventennale. Non avevo, quindi, alcun egoistico interesse a nascondere azioni, pensieri, posizioni ideologiche e politiche tali da pregiudicare la dirittura morale del mio comportamento sia come uomo, sia come italiano, sia come soldato». Il suo memoriale testimonia «la realtà di quel tempo in cui affetti, amore, giovinezza, speranze, sembravano aver perduto ogni senso». Per lui e per quelli della sua generazione. E in quel tempo ci voleva «una gran fortuna e una gran salute» per sopravvivere: «Cade nevischio, le nostra scarpe affondano nel fango… i tedeschi non riescono a mantenere l’ordine… allora, impugnando lunghe fruste, percuotono alla cieca i soldati più turbolenti nel tentativo di incolonnarci. È uno spettacolo spaventoso: grida, bestemmie, soldati che rotolano nel fango e vengono calpestati senza pietà. Le guardie sghignazzano quasi divertite… le fruste lasciano segni sanguinosi sul viso, sulle mani… mi ricordano quelle feste di demoni cornuti che un giorno ho letto in uno dei canti dell’infermo dantesco… oggi compio 23 anni». Luigi Giuntini resiste a tutto.

È la mattina di sabato 14 aprile 1945: «D’un tratto, da lontano, sento grida e canti. Poi vedo passare, correndo, un gruppo di prigionieri russi. Che succede? domando. Tovarich! Wir sind frei! mi rispondono, agitando le braccia e ridendo come matti. Incredulo, ritorno dai miei amici. Quante volte ero passato dalla illusione alla delusione in quasi due anni di esilio?».

Quando liberano il campo di prigionia, si distribuiscono le coperte marroni con la scritta U.S. stampigliata in bianco, quelle delle forze armate americane, e abiti usati. Gli ex prigionieri si lavano e si vestono. Scrive Giuntini: «Mi guardo allo specchio: non mi riconosco più. Quell’abito civile aveva compiuto in me una metamorfosi: come Pinocchio, da burattino in mano a mille burattinai, ero diventato uomo anche se avevo appena 24 anni. Domani mattina niente controllo, niente proiettili… In poche ore sembra svanito quel passato inferno vissuto dall’8 settembre 1943 ad oggi… sono così turbato… dopo lunghi mesi di sofferenze e umiliazioni di ogni genere avverto quanto sia difficile tornare a godere una nuova libera vita. Mi conforta una frase che lessi un giorno in un vecchio libro: Impara a godere, perché il vero godimento è una cosa seria. Imparerò, chissà. Ore 10.30 del 15 aprile 1945».

Un video nato quasi per casoS’intitola «IMI 307-101», con sottotitolo «La sconosciuta storia degli internati italiani», tratto dal diario di prigionia «I lungi giorni dell’agonia: 8 settembre ’43-15 aprile ’45» di Luigi Giuntini. È il filmato, realizzato dallo studio di videoproduzioni di Lorenzo Falaschi (Ponsacco), con Nicola Vanni e Tommaso Cavallini. Racconta Falaschi: «Il progetto è nato quasi per caso. Luigi Giuntini, distinto e lucidissimo novantenne, amico di famiglia da una vita, portava a mio padre Nello il suo diario, scritto durante la prigionia: un capitolo alla volta, che poi ritirava alla consegna del capitolo successivo. È uno straordinario memoriale, quasi una sceneggiatura, ricco di dialoghi, puntuale nelle descrizioni di fatti ed emozioni. Ho pensato di valorizzare questo documento: così, con i miei collaboratori, abbiamo realizzato il filmato, intitolandolo con il numero di internato assegnato a Luigi Giuntini. Questo mio interesse è giunto fino all’ANEI (l’Associazione nazionale ex internati) di Roma, che ci ha chiesto di poter proiettare il video durante la loro festa nazionale annuale». Il filmato è suddiviso in cinque capitoli (generazione del Littorio, armistizio dell’8 settembre, prigionia, ritorno a casa, liberazione del 25 luglio), alternando foto e video, voce narrante e interviste all’autore del diario.

Fabrizia Falaschi, sorella di Lorenzo, docente di Filosofia e storia negli istituti superiori, già Assessore alle politiche sociali e della casa al Comune di Ponsacco, ha conosciuto Luigi Giuntini a scuola. Racconta: «Erano i primi anni Ottanta: lui era un professore affermato di materie letterarie, insegnava nelle scuole superiori di Pontedera, noto per la sua profonda cultura arricchita da spirito arguto e garbata ironia (scriveva anche parodie teatrali, poesie, inni). Allora io ero una giovane collega. Ricordo ancora i primi collegi docenti dove – ironizzando sul detto latino Queta non movere et mota quetare (non agitare le situazioni calme e chetare quelle agitate) – ci esortava a darci da fare per migliorare la scuola. Un esempio per tutti noi, una personalità di grande spessore culturale ed etico: per lui, i doveri prima dei diritti». Continua Fabrizia Falaschi: «Dopo la liberazione, ha lavorato e studiato con grande passione; con la moglie Lorenza Landi ha formato una famiglia unita: ai figli Maria e Benedetto ha trasmesso l’amore per lo studio. Ancora oggi Luigi continua a leggere, scrivere, raccontare. La sua vita è esempio di coraggio, impegno, fiducia nell’umanità: un modello per i giovani d’oggi». Sono rimasti affascinati i suoi studenti quando ha portato in classe alcuni brani del diario di Giuntini, diventato anche tema di un dottorato di ricerca in Scienze Politiche all’Università di Pisa.