LETIZIA NUCCIOTTI: Amore e poesia ai fornelli
di Francesco Giannoni
Nel film Ratatouille, l’astioso critico gastronomico Anton Ego assapora la ratatouille del ratto cuoco Remy; in un poetico flash back si rivede bimbo, i calzoni corti sulle gambine secche, a mangiare quella pietanza, amorosamente cucinata dalla mamma.
Ed ecco un ricordo da L’antichef: in quelle «giornate fredde una alternativa assai piacevole [per la merenda] era di portarsi in tasca qualche manciata di suggioli (le castagne bollite) ancora ben caldi. Ti scaldavano le mani e la pancia dove le tasche piene si appoggiavano e poi era così divertente tirarli uno ad uno fuori dalla saccoccia, strappare con i denti la punta della castagna e poi spremerle sempre con i denti per far uscire la polpa tiepida e dolce che in bocca si scioglieva in una crema più buona delle caramelle».
L’autrice de L’antichef si chiama Letizia Nucciotti. Amiatina di Saragiolo, paesino vicino a Piancastagnaio, ha occhi buoni, scintillanti al momento del sorriso.
Nel suo libro, che unisce poesia e acquolina in bocca, Letizia alterna ricette e ricordi d’infanzia. A questi «sono forse più legata che alle ricette, veicolo per arrivare ai racconti».
Come tutte le favole, la sua inizia tanto tempo fa; non è anziana, ma quel mondo, quello della sua fanciullezza, non esiste più o quasi.
Nonna Ginevra, con cui Letizia è cresciuta, aveva lavorato a Roma a servizio da un generale. Fece carriera e divenne «maestra di casa». Riuscì anche a prendere il diploma di scuola elementare.
Quando tornò a Saragiolo, aveva tanto da raccontare: «Aneddoti, favole, e storie imparate a scuola. Aveva anche le dispense illustrate della Divina Commedia: mi mostrava le figure, mi leggeva i brani. Ma soprattutto mi faceva giocare con la cucina, dove lei era molto brava». Da quei momenti, intimi e giocosi, è nata la passione della vita di Letizia.
Prima di essere cuoca, però, è stata veterinaria per dieci anni. Vivendo in montagna, era normale la vicinanza con gli animali, anche perché il padre ne era appassionato: «Abbiamo sempre avuto cani, gatti, galline, il maiale. Laureatami, volevo far qualcosa per mantenere il contatto con la mia terra, cui ero e sono molto legata: così ho lavorato anche in una stalla sociale, messa su da contadini, quelli veri, con i loro limiti culturali, ma dai profondi valori umani».
Un giorno, all’orizzonte, apparve il principe azzurro, letteralmente a cavallo. Giulio Costi, reggiano, giunse sull’Amiata per fare il servizio civile, allora una scelta coraggiosa. Appassionato e competente cavaliere, collaborava con un maneggio estivo gestito da una cooperativa: organizzava escursioni a cavallo, anche di una settimana; si dormiva in tenda.
Sposatisi, Giulio e Letizia presero in affitto una struttura della cooperativa, rilevandola quando questa fallì.
Nacque «Il Cornacchino», uno dei primi agriturismi toscani. Serviva anche d’appoggio per la partenza e l’arrivo delle escursioni. «Era veramente ruspante. Ricordo con tenerezza quei tempi, anche per il tipo di clienti che venivano. Oggi se non hai il bagno in camera, ti riattaccano il telefono in faccia».
Letizia smise il camice e indossò il grembiule.
Con gli ospiti aveva un rapporto familiare. Nonostante migliaia di coperti ogni anno, si ricordava i piatti preferiti di quasi tutti. E quando leggeva il foglio delle presenze, con i nomi dei clienti, faceva in modo «che all’arrivo trovassero quel che gli era piaciuto».
Era un investimento di tempo e di energie fisiche ed emotive: per 15 anni («ma son valsi per 30»), perfino 17 ore al giorno in cucina; Letizia voleva che tutto fosse perfetto, anche l’abbinamento dei colori. «La cucina a quel livello è uno sport estremo», che le ha procurato problemi fisici a tutto spiano.
Ma quante soddisfazioni. Gli ospiti chiedevano la ricetta del piatto appena mangiato. Letizia gliela dettava, e poi cominciava a raccontare, legando ogni ricetta a un ricordo. Una delle sue collaboratrici le suggerì di mettere tutto per iscritto. Erano le premesse per L’Antichef.
Il titolo è volutamente provocatorio contro l’arroganza di certa cucina che abbina leziosamente cernie e tartufi, che promette cose strabilianti, che ha senso solo in occasioni eccezionali, che ha bisogno di uno specialista e che usa nomi altisonanti, così quel piatto è squisito per forza.
Le ricette di Letizia sono semplici e quotidiane (appunto l’antichef): «Si mangia bene anche con pasta all’olio; basta che questo sia buono e quella al dente. Gli antichef siamo noi che facciamo da mangiare ogni giorno, alla riconquista di una semplicità che secondo me è una qualità sostanziale; alla riconquista di una quotidianità che ha valore, perché la tavola riassume la vita di famiglia, un rapporto fra amici; diventa un modo per dire ti voglio bene, senza scrivere TVB».
Nel suo libro, Letizia insiste sulla familiarità: parla della polenta, «particolarmente bella da mangiare tutti insieme»; lo scopo di mangiare «non era riempirsi lo stomaco, ma soprattutto stare insieme». La convivialità, segno di unione, la viviamo anche mangiando da soli: la merenda preparata dalla mamma esprime «qualcosa di molto più affettuoso e personale di una merendina confezionata».
Ancora: «Quando invece si ha voglia e tempo, quando ci piaccia coccolarci un poco, quando si siano invitati degli amici insomma fuori dalle impellenze di tutti i giorni, si può giocare un po’ con la fantasia per rimescolare le carte in tavola».
Mentre scriveva le ricette, sentiva quanto ognuna fosse legata a un pensiero, a un ricordo. Magari quella gliel’aveva suggerita una persona speciale, l’altra la faceva con nonna Ginevra.
Ma ormai è avvenuto un ulteriore passaggio nella vita di Letizia: «Dopo il camice, mi sono tolta il grembiule; ora mi dedico ai figli»: Ezio, educatissimo e molto dolce; Bettina, «spepera» nelle foto di bambina.
Coltiva, comunque, un’altra sua passione: la scrittura. «Scrivo dappertutto, sui tovagliolini di carta, su un foglio strappato. In borsa ho un blocchetto per le emergenze: se sono in coda, mi guardo intorno; se qualcosa mi colpisce, annoto. Se in macchina mi viene un’idea, accosto e la scrivo, magari concisamente, tanto per fermarla».
Frutto di questa «consapevolezza» è Avanzi popolo. Anche qui ricette e racconti si alternano. In entrambi, Letizia manifesta l’ansia di riconquista di certi valori: «Il senso della misura, la moderazione, la dignità del vivere non devono passare di moda». Così l’uso degli avanzi della nostra tavola diventa un’arte, «rispettosa di valori, vivi una generazione fa, rapidamente soppiantati da poco altro, se non cancellati. Ma aver goduto della loro semplicità, per me è un privilegio».
Serve a tutto, a riscaldare la casa, a preparare l’acqua calda, a cucinare, e a creare intimità: «Mentre io ci preparo la cena, sul tavolo accanto, Bettina fa i compiti. C’è sempre il calore giusto, anche dal punto di vista umano». Poi la sera, la famiglia accende il camino e si accomoda sul divano. Intanto la legna nella cucina, lentamente, si spegne.
Dei gusci d’uovo in una ciotola mi incuriosiscono. Ma una cultrice degli avanzi non li butta via: tritati, uniti a crusca, a bucce di patate sminuzzate, a puliture di carote e d’insalata, diventano ottimo pastone per le galline. Letizia prepara da mangiare perfino ai polli «Ma anche ai gatti. Uno è celiaco e la sua pappa è diversa: bucce di patate con una manciata di riso spezzato, mescolando tutto con croste di formaggio».
Letizia mi fa assaggiare due torte (sue, ottime). Mentre le taglia, si spande un buon profumino. Anche gli aromi hanno valore, «sono un viaggio nella vita; sento un odore e mi sovviene un’immagine che pensavo di avere dimenticato; è un flash, forse neanche un pensiero strutturato, magari mi ricorda solo la luce di un momento. Gli odori mi stravolgono, hanno su di me un’attrazione animalesca».
Beviamo insieme una tisana calda.
Fuori la soffice nevicata della notte precedente dà spunto ad altri ricordi. Quando Letizia era piccola, sull’Amiata il turismo della neve non esisteva. Gli amiatini non sciavano, quindi non c’erano attrezzature. Ma la fantasia dei bambini rimediava: «Sai le tavole per portare il pane? Ogni famiglia le aveva. Leggermente concave, grandi per sedersi anche in tre, erano spettacolari per scivolare sulla neve». E il gioco, fra grida, suoni e guance rosse, diventava magia.