LEONARDO PINZAUTI: Il critico musicale che lanciò Riccardo Muti
di Antonio Lovascio
Oltre mezzo secolo di giornalismo, gran parte come critico musicale, tra i più autorevoli e temuti dagli artisti, apprezzato dai melomani più esigenti per la scrittura piacevole, fiabesca, e per il suo saper cogliere il valore delle novità. Proiettato, non a caso, al vertice dell’Associazione nazionale dei critici e della Nuova rivista musicale italiana. Migliaia sono le recensioni di opere e concerti, i libri ed i saggi scritti da Leonardo Pinzauti. Testimoni eloquenti del suo rigore, della coerenza intellettuale, della lucidità delle idee e dell’onestà nell’esprimerle.
A 84 anni (portati d’incanto in sella all’inseparabile bicicletta, con cui si muove per le vie di Firenze, infilandosi a tracolla, quando splende il sole, una supertecnologica macchina fotografica) ormai si gode con la moglie Tamara (pianista) e la primogenita Cristina, i successi di Alessandro, direttore d’orchestra. Gioviale ma riservato, non ama parlare troppo di sé. Se non per raccontare la sua precoce passione per la musica («Già a 7 anni studiavo violino con Vincenzo Papini e Sandro Materassi, poi mi sono diplomato»). La laurea in lettere all’Università di Firenze con una tesi sulla musicologia sotto la guida di Fausto Torrefranca ne è stata il naturale sviluppo. Come il debutto da violinista nell’Orchestra del «Maggio» e l’insegnamento al Conservatorio «Cherubini».
Della sua eccezionale carriera professionale sono stato un osservatore privilegiato: nei 35 anni (fino al Duemila) in cui l’apprezzamento dei lettori per le sue originali e colte analisi sui grandi eventi musicali ha rappresentato un comprensibile motivo di orgoglio per tutti noi colleghi de «La Nazione» e per quelli del confratello «Il Resto del Carlino». Era il nostro fiore all’occhiello: approdato nel 1965 al quotidiano fondato da Bettino Ricasoli, chiamato personalmente da Enrico Mattei («Così almeno avremo un giornalista cattolico!»). Pinzauti, sorridendo, rievoca il primo contatto con lo storico direttore di via Paolieri: «Mattei mi invitò a pranzo da Sabatini. Seduto a pochi passi da noi c’era l’editore, il Cavaliere Attilio Monti. Me lo presentò e il petroliere mi salutò cordialmente». Una calorosa stretta di mano però non cancellò le dure battaglie, a suon di editoriali, che dal 1960 al 1963 Pinzauti condusse alla guida dell’altra testata fiorentina («Il Giornale del Mattino» lanciato da Ettore Bernabei) per rispondere agli attacchi rivolti contro Giorgio La Pira e l’effervescente mondo cattolico toscano.
Un’esperienza unica, questa: proprio in quel periodo, infatti, il musicologo prestato alla politica (dal 1957 era già stato per tre anni caporedattore de «Il Popolo» a Roma) conobbe uomini dello spessore di Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giovanni Gronchi; intensificò i contatti con il vecchio professore di religione al Liceo Galileo, monsignor Raffaele Bensi, («estimatore di Giovanni XXIII e personale amico di Paolo VI»), confessore di tanti personaggi: «Proprio da don Bensi mi spiega incontravo il grande filologo Giorgio Pasquali e l’amatissimo professor La Pira, da tutti diverso, insieme curioso e affascinante. Se capiva di dover aspettare molto prima di incontrarsi con l’amico prete, approfittava di una piccola finestra interna, che dalla stanza si apriva sulla chiesa sottostante di San Michelino. E qui si metteva a pregare in ginocchio». Di La Pira conserva tante lettere e appunti scritti a mano, affettuose cartoline speditegli da ogni parte del mondo. E quel telegramma, carico di solidarietà e siciliana ironia, che il «sindaco-profeta» gli inviò nel 1963, allorchè il direttore del «Mattino» fu condannato a cinque mesi dal tribunale di Firenze per aver pubblicato un articolo di padre Ernesto Balducci sull’obiezione di coscienza. Una sentenza che scatenò sarcasmo in redazione: «Guarda Leonardo, ti peserà sulle fedina penale: non potrai più avere la licenza di caccia!».
Ma numerose altre figure hanno lasciato il segno nella sua vita. Ancora oggi Pinzauti si emoziona quando, con benevolenza e stima, ricorda Piero Bargellini («il geometra amico di mio padre e direttore didattico della scuola elementare Baracca, a Peretola») passato alla storia come generoso e popolare sindaco dell’alluvione, «accattivante scrittore» e direttore del «Frontespizio» («A casa sua trovavo tanti e diversi intellettuali: Luzi, Parronchi, Bonsanti, Spadolini, Bigongiari, Lisi e Betocchi»). Oppure quando parla di quel grande «virtuoso dell’incisione» che fu Pietro Parigi, epigono di una nutrita cerchia di pittori e scultori che, in Santa Croce, nobilitavano il Centro culturale e la rivista di padre Rosito. O quando mi snocciola i nomi di alcuni dei tanti volontari che insieme a lui hanno trascorso intere notti ad assistere malati prestando servizio alla «Misericordia».
Il professore non guarda solo al passato, ai fasti del Novecento. Il suo pensiero è spesso rivolto alle nuove generazioni. «Non vorrei mi confessa essere considerato da chi legge i miei ultimi libri soltanto uno dei molti intellettuali in polemica con il mondo di oggi; quindi con ricordi ingiusti, fatti quasi sempre di nostalgia». Lo capisco: in fondo lui ha sempre puntato sui giovani. Una prova? La sua più grande scommessa artistica vinta: Riccardo Muti. Fu proprio Pinzauti il primo critico a scoprire il talento del ventisettenne musicista napoletan-pugliese, fin dall’esordio al Maggio Musicale, il 18 giugno del 1968. A sponsorizzarne dalle colonne de «La Nazione», la nomina a direttore stabile del Teatro Comunale di Firenze, voluta anche dall’Orchestra. «Perché non fidarsi della giovinezza?»: con coraggio esortò il Sovrintendente Remigio Paone e il direttore artistico Roman Vlad. Ecco perché il Maestro tuttora non perde occasione per rinnovare pubblicamente al musicologo fiorentino la sua profonda gratitudine e devozione, tramutate col tempo in solida amicizia.
Altrettanto forte era allora la riconoscenza dei genitori di Muti, ogni volta che dal Sud arrivavano a Firenze per seguirne le esibizioni. Il padre (medico condotto) in prima fila ad applaudire, la madre Gilda sempre in fondo. Ma alla fine di ogni concerto si avvicinava a Pinzauti: «Mi dica, professore, come va questo ragazzo?».
I trionfi di Muti hanno segnato la crescita del Maggio Musicale nel solco tracciato da Vittorio Gui: in poche edizioni è diventato un Festival di assoluto prestigio internazionale. Dopo la sua partenza, nel 1980, sono purtroppo seguite alterne vicende, nonostante al timone del «Comunale» si siano alternati Sovrintendenti esperti e competenti (Massimo Bogianckino e Giorgio Vidusso), un direttore artistico del calibro di Bruno Bartoletti, e siano saliti sul podio direttori eccellenti (basta citare Giulini), prima che nel 1986 si aprisse la lunga e gloriosa era di Zubin Mehta. Pinzauti senza nascondere le responsabilità amministrative e politiche dell’appannamento e dell’assuefazione alla routine ha sempre difeso il ruolo di Firenze e del suo teatro-simbolo come centro di cultura e di creatività. E, soprattutto nel 1991, ha denunciato senza peli sulla lingua «il diffondersi di un’assurda campagna di sciacallaggio proprio nei confronti di tutta l’attività del Teatro Comunale ed un parallelo rifiorire di salvatori improvvisati, quasi si stessero ormai celebrando i funerali della Firenze musicale». Insomma, se il Maggio e il Teatro Comunale sono sopravvissuti ed hanno raccolto ulteriori successi nella concertistica e nella moderna drammaturgia operistica lo si deve anche a Leonardo Pinzauti. Che in questi giorni si rallegra nel vedere che proprio il suo «pupillo» Riccardo Muti ha il potere di fermare la scure di Tremonti e di recuperare un po’ di fondi per non far morire i nostri enti lirici.
Pinzauti ci ha offerto anche acute riflessioni e gustosi retroscena sugli avvicendamenti ai vertici dei teatri lirici italiani, sulle ricorrenti crisi dovute in particolare all’impietoso taglio di risorse da parte dei vari governi. In «La musica e le cose», edito da Vallecchi, ha invece raccolto i suoi diari di viaggio come critico musicale (corteggiato più volte dal «Corriere della Sera») in Italia, Germania, Salisburgo, Edimburgo, Chicago e New York.
Con l’editore Passigli nel 1986 ha pubblicato «Ricordi di cose perdute», una nuova galleria di illustri musicisti visti da vicino: da Abbado a Giulini, da Bernstein a von Karajan, da Gavazzeni a Muti; e sempre con Passigli ne ha riproposte altre due (nel 1991 e nel 2001) per parlare di altri protagonisti del nostro tempo, tra cui i compositori Malipiero e Dallapiccola, il cantante Toti dal Monte, il critico Massimo Mila. Nel 2003 con Polistampa si è occupato del grande pianista Pietro Scarpini, mettendone a fuoco l’incidenza nel costume musicale del suo tempo.